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L’inferno alle spalle e la paura negli occhi

Un 17enne del Ghana ci racconta la sua vita da schiavo in Libia e la morte dei compagni su una carretta del mare alla deriva nel Mediterraneo. Un altro piccolo sopravvissuto non trova la sorella e un uomo del Senegal ha perso la moglie e il figlio di un anno
/ 29/04/2024
Angela Nocioni

Ha 17 anni, è del Ghana. Lo chiamiamo Y. Sta seduto sul ponte della nave che l’ha issato da un gommone in cui erano rimasti vivi in 25, alla deriva da più di una settimana al largo di Tripoli. Hanno bevuto per molti giorni solo sorsi di acqua salata. È stata una strage, sotto il sole di giorno e il gelo di notte. Decine e decine di persone morte di stenti. Tra le cinquanta e le sessanta vittime, scriveranno nei giorni seguenti i media. «Eravamo un centinaio quando siamo partiti», hanno detto i sopravvissuti a noi del gommone di soccorso EZ1 della nave Ocean Viking, della Ong Sos Méditerranée, appena li abbiamo tratti in salvo la mattina del 13 marzo scorso. «Donne, bambini, bebè», ha subito raccontato, facendo con le braccia il gesto del ninnare, il ragazzo meno disidratato, quello che ce la faceva meglio degli altri a parlare. Due di loro saranno evacuati con un elicottero venuto dalla Sicilia, ma uno morirà poi all’ospedale di Agrigento.

Y. tiene gli occhi sempre a terra. Parla solo sussurrando, ha uno sguardo interamente triste: «In Libia sono stato da novembre a marzo aspettando che mi mettessero su quel gommone. Ero rinchiuso in un allevamento di polli, mi facevano lavorare lì da prima dell’alba fino alla notte. Dovevo caricare le uova, il mangime, spostare i sacchi, occuparmi degli animali, pulire tutto. No, non mi pagavano, mi facevano lavorare per aspettare di partire e mi davano un po’ da mangiare e l’acqua. I soldi per il viaggio me li ha dati la mia famiglia, tutti quelli che sono riusciti a mettere insieme tutti i miei parenti». Lungo silenzio. «Morti, morti, sono tutti morti, anche il mio amico, anche i bambini, tutte le donne, uno a uno, tutti morti». Alcuni sono impazziti dalla disperazione, si sono buttati in mare sapendo di morire, per non morire di stenti. Altri sono scivolati in mare privi di forze. Li ha uccisi la sete.

Da dietro l’alta parete argentata del container arriva il rumore del mare. Il ponte è liscio. La luce del sole, ormai basso, cola tra le sartie. Loro sono salvi per caso. Li ha visti nel sole di mezzogiorno col binocolo F., il ragazzo di turno agli avvistamenti sul ponte di comando della Ocean Viking. Quel gommone nero alla deriva si è casualmente trovato sulla rotta della nave che stava andando verso una barca di legno blu a rischio naufragio segnalata da Sea Bird 2, l’aereo della Ong Sea Watch, a cinque ore di distanza. Ci si stava preparando a un salvataggio con tensione perché tre motovedette libiche, tutte date ai miliziani libici dal Governo italiano, stavano attraversando il radar nello spicchio di mare davanti a noi. Dagli smartphone sbucava intanto il ministro degli Interni italiano, Matteo Piantedosi, abbronzato, quella stessa mattina sbarcato a Bengasi: stretta di mano al generale libico Haftar, il padrone della Cirenaica, e sorriso a favore di telecamera.

Tra i sopravvissuti alla strage 12 sono adolescenti, ci sono due ragazzini sotto i 12 anni. Sono tutti sotto choc, rintanati in uno stato di irrealtà. Hanno visto morire, uno a uno, chi la madre, chi il fratello, hanno vegliato i cadaveri e li hanno dovuti abbandonare in mare. «Un altro giorno alla deriva e sarebbero morti anche loro», dicono i medici dopo il primo soccorso. Uno dei più piccoli continua a chiedere dov’è sua sorella, dice che era accanto a lui e non la trova più. Un uomo del Senegal viaggiava con il figlio di un anno e la moglie: «Stavamo da due anni in Libia. Sono partito con loro. Lui è morto il primo giorno senza acqua, lei quattro giorni dopo», racconta. Il mare aveva quasi ucciso anche lui, era un’acqua verde spessa ormai come vernice dentro gli occhi, nei polmoni. Ha visto un elicottero volare per giorni sulle loro teste, mentre a poco a poco morivano. Non li ha soccorsi, dice, e non ha dato l’allarme.

Il sole è tramontato. Loro sono seduti, al caldo, in uno spazio chiuso sulla coperta. Viste di notte, alla luce tremolante dei neon, nel silenzio rotto dal rumore del motore e dei respiri, quei visi di adolescenti sotto choc sembrano maschere antiche arrivate da un altro mondo di cui sono segno e messaggio. Esseri umani. Di carne e di ossa. Occhi neri, pelle scura. Sono pieni di illusioni, di paura. Il fondo del Mediterraneo è costellato dei loro corpi, finiti nel fondale o sprofondati tra le alghe ancora zeppi di sogni. Quei cadaveri divorati dai pesci nel buio marino, le loro speranze impigliate tra pezzi di barche affondate, sono i mostri in agguato delle nostre coscienze.

Il cielo è un tripudio di stelle, un minuscolo filo di luna arancio bassa sull’orizzonte, il buio interrotto da una lunga fila di luci. Sono barche di pescatori, in fila sembrano una città costiera illuminata. Nel nero del mare compare una barchetta che sembra di carta. Ci avviciniamo coi gommoni. Solo teste fitte fitte, corpi che sporgono da ogni lato dello scafo e si reggono con una catena di braccia tra loro. Sono 114 persone, 112 adulti e due bambini, uno piccolissimo, in uno scafo di legno lungo 7 metri. È un double deck, una barchetta a doppio strato fatta di pallet (palette), sotto coperta i più poveri. Sono afghani, siriani, pakistani, qualche nero. C’è un siriano bianco, occhi verdi, un ragazzino. Una donna anziana con un lungo velo nero fradicio di carburante e acqua salata ha perso in mare una borsa blu. Con i documenti. È caduta in mare. Ralph, il pilota di uno dei gommoni di salvataggio, la tira su col mezzo marinaio prima che affondi. Sorridono, portano la mano sul cuore. Un afghano, magro magro, prega.

Sono tutti disidratati, intossicati di carburante, non sembrano esserci emergenze mediche. L’atmosfera in coperta la mattina dopo è quasi allegra. I più giovani fumano a poppa, sono felici di farsi la doccia, si scattano fotografie col cellulare. Dal container della piccola clinica sul ponte di coperta esce una dottoressa francese, parla benissimo l’arabo e l’inglese, ha passato la notte ad ascoltare, soccorrere, visitare, curare, abbracciare, asciugare lacrime, stringere mani. «Sai – dice – non ti abitui mai ad ascoltare l’orrore delle donne che escono dalle carceri libiche: stupri, violenze di ogni genere, sevizie». In quelle celle i carcerieri entrano come belve, si prendono viagra, cocaina e poi massacrano per ore donne e ragazzine, quotidianamente. Una di quelle donne parlerà, di sua iniziativa, all’angolo delle docce senza bere il tè caldo che tiene tra le mani. Parlerà per mezz’ora, un lungo pianto liberatorio. Racconterà quell’inferno. «È la prima volta che racconto a qualcuno cosa mi è successo in questi ultimi due anni. Se la Guardia costiera libica fosse arrivata in tempo prima di voi, per riprenderci, io mi sarei buttata in mare. Meglio morire che tornare in Libia». Piange e sorride: «Raccontalo a terra, ditelo a tutti cosa succede a chi viene preso dalla Guardia costiera libica. Io mi vergogno».