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Cina, un sistema sempre più chiuso

Tutto passa da app digitali che aumentano l’efficienza ma anche il potere di vigilanza delle autorità sulla popolazione
/ 15/04/2024
Federico Rampini

Se non fossi stato invitato in Cina dall’ambasciata italiana, per tenervi un ciclo di conferenze su Marco Polo a 700 anni dalla morte, non sarei sopravvissuto un solo giorno. Mancavo dal 2019. La pandemia ha trasformato la Repubblica popolare in un «sistema chiuso». Quel gigantesco esperimento di controllo sociale attraverso le app digitali, che era stato operato per ragioni sanitarie, è diventato permanente anche dopo il Covid. Le conseguenze sono enormi, in molti campi. Da un lato c’è un guadagno di efficienza, oggi i cinesi liquidano con gran facilità la maggior parte delle transazioni e pratiche quotidiane con una app sul cellulare: sono ben più avanti di noi. D’altro lato questo aumenta il potere di vigilanza delle autorità su di loro. Infine rende quasi impossibile il turismo straniero, perché se non hai una app cinese collegata a un conto bancario locale o a una carta di credito sempre autoctona, è diventato quasi tutto impossibile: pagare un ristorante o un taxi, prenotare un treno o un museo. Sul treno ad alta velocità da Pechino a Shanghai ho visto uno straniero tentare invano di comprare una bottiglietta d’acqua: la sua carta di credito occidentale è stata cortesemente respinta. Durante la pandemia la Cina si è svuotata di molti espatriati, soprattutto manager di multinazionali occidentali, e pochi sono tornati. Se la cava anche senza. I suoi «campioni nazionali», da Huawei a Build Your Dreams (auto elettriche) imparano a innovare da soli.

In Cina ho vissuto cinque anni, dal 2004 al 2009. Una volta tornato in America ho continuato a visitarla con assiduità, spesso aggregandomi alla carovana dell’Air Force One in occasione di visite presidenziali. L’ultimo soggiorno fu nell’estate 2019. Ho saltato l’intera pandemia e anche più. Dopo un libro intitolato Fermare Pechino la concessione del mio visto non era scontata. Ma Xi Jinping ha fatto un gesto inusuale verso di noi, quasi a dimostrare che non ci tiene rancore dopo l’uscita dalle Vie della Seta. L’Italia con Germania e Francia fa parte di un suo esperimento recente: libertà d’ingresso senza visto per viaggiatori che restino non oltre quindici giorni. M’infilo nell’opportunità, per una volta il mio passaporto italiano mi serve più di quello americano.

Nelle quattro città che ho attraversato – Pechino, Shanghai, Canton, Hong Kong – i cieli erano abbastanza azzurri e l’aria respirabile. È lontano il ricordo dello smog pestilenziale in cui ero immerso vent’anni fa. Questa Cina raccoglie frutti di operazioni avviate da tempo: allontanamento di fabbriche dalle metropoli, messa al bando del carbone dal riscaldamento urbano. L’emissione complessiva di CO2 continua ad aumentare, però Pechino spesso ha un’aria meno inquinata di Milano. L’auto elettrica avanza a vista d’occhio: nel 2019 vedevo molte Tesla, oggi prevalgono le marche locali. La più importante è Byd che sta per Build your dreams (costruisci i tuoi sogni). Scena inaudita accaduta all’ultimo salone dell’automobile di Shanghai: lo stand della Byd era assediato da tecnici della Volkswagen in venerazione. Un mondo alla rovescia. Vent’anni fa la tecnologia tedesca godeva di un prestigio tale fra i cinesi, che questo mercato sembrava una conquista perenne per il «made in Germany». Oggi la Byd si può permettere innovazioni che ci fanno sognare. A Shanghai i tassisti con auto elettrica non hanno più il problema della ricarica alle colonnine: la Byd ha stazioni di servizio che sostituiscono in pochi minuti la batteria scarica con una carica. Può sembrare costoso altrove, non in Cina che ha un monopolio mondiale e una sovrapproduzione di batterie.

Vent’anni fa Pechino, Shanghai, Canton erano invase da un mare di Audi… La progressiva ritirata del «made in Germany» è parte di un fenomeno più ampio. Una diplomatica occidentale riassume l’umore fra i manager delle aziende multinazionali: «Molti pensano di avere gli anni contati. I cinesi lasceranno loro spazio solo finché ne avranno bisogno. Ma prima o poi verranno sostituiti da produttori locali». L’alta disoccupazione giovanile (21% secondo i dati ufficiali) è frutto di una divaricazione tra aspettative e realtà: troppi neolaureati hanno inseguito il sogno di un posto qualificato e ben pagato, il mercato del lavoro offre tanto precariato e mansioni operaie. Spesso i genitori sostengono le aspirazioni dei figli, preferiscono mantenerli in casa e risparmiare loro umiliazioni. È nata anche qui una generazione di «sdraiati» (sul sofà di casa, con una consolle di videogame in mano) e un’ironia amara su una nuova professione giovanile, «figli per sempre».

Gli stessi genitori si sentono impoveriti per un’altra ragione: hanno fatto mutui per comprare case il cui valore continua a scendere per la crisi dell’edilizia. I consumi ristagnano. La cosa ci riguarda tutti. Questa Cina sta già esportando i suoi problemi in Occidente. L’export di prodotti «made in China» è più aggressivo che mai. Sul mercato americano le vendite cinesi dall’inizio dell’anno sono aumentate del 7% in valore ma del 30% in quantità: siamo inondati di prodotti a prezzi stracciati, Pechino deve smaltire eccessi di produzione. A Shanghai ho avuto incontri con imprenditori e investitori cinesi, un campionario del capitalismo locale. Mi ha colpito la frequenza con cui mi interrogavano sullo stato delle finanze pubbliche a Washington. Perché i ricchi cinesi sono così preoccupati dal bilancio pubblico americano?

Nell’ultimo semestre il deficit del bilancio federale statunitense è salito a 1’064 miliardi di dollari, trainato da un aumento del 10% nella spesa pubblica per la sanità (sì, al contrario degli stereotipi, esiste una sanità pubblica anche negli Stati Uniti), del 9% nella spesa per le pensioni, e del 43% nella spesa per gli interessi sui titoli del Tesoro. Il debito pubblico americano l’anno scorso ha superato il 120% del Pil. Il deficit ha superato il 6% del Pil. I cinesi che ho incontrato a Shanghai hanno ragione ad essere preoccupati. Anzi, hanno più di una ragione. Di sicuro una parte dei loro patrimoni sono investiti in dollari, molti di loro hanno anche una seconda casa negli Stati Uniti, magari una green card, e qualche figlia o figlio che studia in una università americana. Quindi c’è una preoccupazione «personale». Ma credo sia ancora più importante per loro una inquietudine di tipo sistemico. L’America è il primo mercato di sbocco per le esportazioni cinesi. La salute dell’economia Usa inoltre influenza il resto del mondo, a cominciare dall’Europa. Se gli Stati Uniti dovessero subire tensioni legate a un eccessivo deficit e debito pubblico, le ripercussioni negative sulla Cina sarebbero automatiche, anche attraverso l’aumento dei tassi.

Infine una considerazione sul crollo di giornalisti stranieri. Una quantità crescente dell’informazione sulla Cina oggi viene fatta da persone che non vi risiedono. La colpa è del Governo cinese che nega o raziona i visti. Il risultato è che molti scrivono su questo Paese attingendo a fonti americane, europee, non necessariamente ben disposte. L’Occidente intero subisce un deterioramento nella qualità della sua informazione e delle sue analisi sulla Cina: la seconda superpotenza militare e tecnologica, la seconda economia mondiale dietro gli Stati Uniti, la prima potenza industriale ed esportatrice del pianeta, nonché un colosso da 1,4 miliardi di abitanti, erede di una civiltà con tremila anni di storia. Una informazione limitata, scadente o inficiata da pregiudizi sulla Cina può condurci a sbagliare le nostre previsioni e a prendere a nostra volta decisioni errate. È un problema serio che ci riguarda tutti: operatori economici, leader politici, classi dirigenti, professionisti e accademici occidentali, siamo tutti bisognosi di informazioni accurate. Non per colpa nostra, stanno diventando merce rara.