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Un’alleanza che traballa

L’America prova a «sganciarsi» da Israele, e non è la prima volta
/ 12/02/2024
Federico Rampini

Benjamin Netanyahu ha respinto l’ultima proposta di un cessate-il-fuoco avanzata da Hamas, dichiarando che «non esiste una soluzione se non la vittoria totale». Il suo rifiuto è suonato anche come una bocciatura della mediazione di Antony Blinken, il segretario di Stato americano impegnato in una complessa «shuttle-diplomacy» di kissingeriana memoria, per tessere le fila di un negoziato che ha coinvolto anche Arabia saudita, Qatar, Egitto. La frustrazione americana è ai massimi, in particolare per «Antony of Arabia». Sulle orme del più celebre «Lawrence of Arabia», l’ufficiale inglese che nella prima guerra mondiale aiutò gli arabi a ribellarsi contro l’impero ottomano, il segretario di Stato Usa sta segnalando un crescente allineamento della politica estera americana sulle strategie saudite. Il quinto viaggio di Blinken in Medio Oriente – da quando è iniziata questa guerra il 7 ottobre – ha avuto come prima tappa Riad. Sembrano lontani i tempi in cui Joe Biden annunciava di voler trattare l’Arabia come uno Stato-paria, per castigare i suoi abusi contro i diritti umani (in particolare l’assassinio del giornalista d’opposizione Jamal Khashoggi). Oggi nella tragedia di Gaza la posizione della Casa Bianca è più vicina al principe saudita Mohammed bin Salman che a Netanyahu. Per esempio sulla necessità di uno Stato palestinese.

L’America ci riprova, a «sganciarsi» da Israele. L’evidente divergenza può preludere a un cambiamento nella politica estera americana: l’allentamento di un rapporto unico nella storia, un’alleanza così stretta da superare perfino il rapporto con gli alleati atlantici della Nato. L’asse fra Stati Uniti e Israele oggi viene contestato più che mai, da diverse constituency americane: nei campus universitari, nella comunità black, tra gli immigrati arabi e da parte di tanti funzionari federali di ogni livello che hanno aderito alle recenti petizioni su Gaza. Un parziale «decoupling» fra l’America e Israele non significa una rottura totale (impensabile), per molti aspetti l’alleanza resterebbe in piedi, diventerebbe però un rapporto più normale, più simile a quello che Washington ha con altre Nazioni amiche e alleate. Sarebbe una novità gigantesca e al tempo stesso un ritorno alle origini. I primi presidenti a governare gli Stati Uniti dopo la nascita dello Stato d’Israele, il democratico Harry Truman e il repubblicano Dwight Eisenhower, mantennero una certa equidistanza fra la difesa della nuova Nazione e gli interessi del mondo arabo (vedi l’intervento «a gamba tesa» di Eisenhower nel 1956 per stoppare l’offensiva anglo-franco-israeliana contro l’Egitto di Nasser). Le cose cominciarono a cambiare sotto John Kennedy, ma fu con Lyndon Johnson che l’allineamento divenne la regola, durante e dopo la «Guerra dei sei giorni» (1967). Dei tentativi di rendere la politica estera americana più autonoma da Israele ci furono sotto Jimmy Carter e Bill Clinton; ma l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 e la «Guerra al terrore» dichiarata da George W. Bush portarono nuovamente a rinsaldare quell’alleanza.

Il tentativo più sistematico di contestare l’asse America-Israele risale a un grande esponente della scuola realista in geopolitica, John Mearsheimer. Mearsheimer non è una «colomba», non contesta il legame con Israele su basi pacifiste. È favorevole a una politica estera che corrisponda ai veri interessi vitali degli Stati Uniti. Le sue analisi possono portare a ridimensionare drasticamente gli impegni internazionali degli Stati Uniti. È dagli anni Ottanta che lui sviluppa il suo pensiero e oggi sta tornando di moda con il vento isolazionista che soffia sull’America. La critica di Mearsheimer è molto articolata, ne ricordo un solo aspetto. È l’aggettivo «incondizionale» che ricorre nel caratterizzare l’appoggio americano a Israele. Nessun altro Paese al mondo riceve da Washington una quantità di aiuti lontanamente paragonabile. E si tratta di aiuti che gli Stati Uniti non sottopongono a condizioni nel vero senso di questa parola. Dagli anni Settanta in poi, non c’è mai stata un’Amministrazione Usa che abbia saputo o voluto utilizzare quegli aiuti come una leva, per piegare i Governi israeliani alla propria volontà. Anche quando dei Governi israeliani hanno fatto il contrario di quel che voleva Washington (per esempio sugli insediamenti illegali di coloni), gli aiuti hanno continuato ad arrivare. In questo senso l’appoggio a Israele non obbedisce a una regola fondamentale del realismo politico: una Nazione deve condurre la politica estera in modo tale da difendere e promuovere i propri interessi. L’America secondo Mearsheimer ha sacrificato molti dei suoi interessi in Medio Oriente, si è alienata molte simpatie nel mondo arabo e anche in altre parti del sud globale, senza ottenere in cambio dei benefici adeguati.

Un’occhiata allo Stato del Michigan spiega perché la strada verso la rielezione alla Casa Bianca può passare anche da Gaza. Un pericolo concreto riguarda l’elettorato arabo-americano. Ecco dove il Michigan è cruciale. Questo Stato industriale del Mid-West ospita la più grossa comunità di immigrati provenienti da Paesi arabi. Molti sono di seconda o terza generazione, o comunque hanno da tempo la cittadinanza Usa e votano. Un sondaggio recente rivela che gli arabi-americani intenzionati a votare per Biden sono crollati: erano il 59% prima della guerra, ora sono il 17%. Quaranta punti percentuali è un tracollo inaudito. Il Michigan è uno di quegli Stati in bilico, dove può giocarsi la sfida di novembre per la Casa Bianca: nel 2020 Biden lo conquistò per soli 154’000 voti su un totale di 5,5 milioni. Una massiccia defezione di arabi-americani potrebbe essergli fatale questa volta. Esiste da tempo una corrente di pensiero critica, revisionista, alla ricerca di un profondo riesame nei rapporti tra America e Israele. Con Netanyahu abbiamo avuto più volte la sensazione che la corda sia stata tirata troppo, fino a rischiare di spezzarsi. Quando Netanyahu venne negli Stati Uniti a fomentare il Congresso a maggioranza repubblicana contro Barack Obama, i rapporti con la Casa Bianca precipitarono molto in basso. Con Donald Trump alla Casa Bianca, Netanyahu ritrovò un alleato di ferro. Adesso siamo in una congiuntura nuova. Il livello di insoddisfazione verso l’asse America-Israele è ai massimi; le grandi manovre del suo segretario di Stato Antony Blinken in Medio Oriente, l’emergere di un asse Washington-Riad, stanno a significare che l’aggettivo «incondizionato» potrebbe cessare di applicarsi alla relazione speciale con Israele.