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Tra tormenti e ritrovate collegialità

La concordia non regna sempre sovrana a Palazzo federale. C’è da sperare che l’inizio della legislatura, e il volto nuovo in arrivo in Governo, portino a una dinamica più costruttiva
/ 27/11/2023
Roberto Porta

Nella Sala dei passi perduti a volte qualcosa si trova. È lo spazio delle discussioni informali, degli incontri più o meno casuali e anche delle interviste. Si tratta di un vasto corridoio che a Palazzo federale circonda l’aula del Consiglio nazionale. In quella sala, nei giorni in cui venivano eletti anno dopo anno gli attuali consiglieri federali, si è spesso sentito parlare di «ritrovata concordanza», di «equilibri politici finalmente rispettati» e di un «Governo pronto a lavorare in modo collegiale». C’erano da eliminare un bel po’ di tossine, accumulate dal 2003 in poi, con l’elezione in Governo di Christoph Blocher, la sua estromissione quattro anni più tardi e la nomina al suo posto di Evelyne Widmer Schlumpf. Dopo quel tormentato primo decennio degli anni Duemila si sentiva il bisogno di una sorta di riconciliazione federale. È stato così nel dicembre del 2015 con l’elezione del vodese Guy Parmelin. Con lui l’UDC tornava ad avere due seggi in Consiglio federale, all’insegna appunto di «una ritrovata collegialità». Stesso scenario due anni dopo, con l’elezione di Ignazio Cassis e con il ritorno a Berna di un rappresentante della Svizzera italiana. La «concordia» quel giorno fu soprattutto linguistica e culturale, nel rispetto della minoranza italofona. Canovaccio simile anche nel 2018, con l’elezione di Karin Keller Sutter e Viola Amherd. Due donne che permisero di portare un nuovo equilibrio tra i generi in seno al Governo. E fu così anche l’anno scorso, con Albert Rösti, vincitore già al primo turno, ed Elisabeth Baume-Schneider. Un’elezione a sorpresa quella della socialista giurassiana, che però permise al suo Cantone di approdare per la prima volta in Governo. Insomma, anche quella fu un’altra giornata all’insegna della concordia.

Un’atmosfera ben diversa da quella di altre elezioni del passato, precedute da una serie di «Notti dai lunghi coltelli», con accordi segreti sottoscritti all’ultimo momento per impedire l’elezione di un candidato indigesto e per sgambettare il suo partito. La prima notte da trame misteriose fu quella che portò alla bocciatura della socialista Liliane Uchtenhagen, nel 1983. Sarebbe stata lei la prima donna a poter approdare in Governo, ma il Parlamento le preferì Otto Stich, socialista pure lui, ma non candidato ufficiale del partito. Di elezioni contese ce ne furono poi altre nei decenni successivi. Niente di tutto questo però negli ultimi dieci anni, caratterizzati da elezioni in Governo all’insegna di una ritrovata pace federale, con tanto di plauso alla collegialità e all’arte del compromesso. Parole al vento, si potrebbe però dire oggi. Sì, perché il cosiddetto scandalo dei «Coronaleaks», le fughe di notizie dal Dipartimento dell’interno durante il concitato periodo della pandemia, ha messo in luce un clima di sospetti tra i sette membri del Consiglio federale, tra sfiducie reciproche e colpi bassi.

Tutto o quasi ruota attorno alla figura di Alain Berset, uscito scagionato dall’inchiesta su questo caso, condotta da due commissioni parlamentari. Su di lui rimangono comunque alcune ombre, anche perché i suoi colleghi di Governo, ascoltati nel corso della stessa inchiesta, hanno parlato di un ambiente tutt’altro che ideale per il lavoro del Consiglio federale, a causa proprio delle frequenti fughe di notizie. Non certo un clima improntato a quella collegialità così tanto declamata nei «dì di festa», quando l’«habemus Papam», in versione rossocrociata e laica, è risuonato gioioso dentro e fuori Palazzo federale. Certo, quelle fughe di notizie non hanno compromesso l’azione del Governo, l’hanno semmai appesantita, anche perché queste falle sono emerse qua e là anche in altri settori dell’amministrazione federale, accentuando la tendenza al «dipartimentalismo», che è l’esatto contrario della collegialità. Il prossimo 13 dicembre ci sarà l’elezione di tutti i ministri, per sei di loro si tratta di una riconferma, a cui va aggiunta anche la nomina del nuovo o della nuova ministra socialista, al posto appunto di Berset. C’è da sperare che l’inizio della legislatura, e il volto nuovo in arrivo in Governo, possano portare ad una dinamica diversa in Consiglio federale.

Il Paese è confrontato con problemi gravi, che richiedono un Esecutivo forte e compatto. Un Governo che sappia dialogare con il Parlamento, e cesellare con il legislativo le tante riforme di cui il Paese ha bisogno: cassa malati, clima, immigrazione e relazioni con l’Unione europea, per fare solo alcuni esempi. Dal canto suo, il Parlamento esce in parte rinnovato dalle elezioni federali di questo autunno. Una sfida elettorale che ha visto un vincitore numerico. L’UDC conferma il suo primato nazionale, con nove seggi in più al Consiglio nazionale. I democentristi marciano però sul posto al Consiglio degli Stati, dove non sono riusciti a piazzare alcuni candidati, a cominciare dallo zurighese Gregor Rutz, uno dei pezzi da 90 del partito. C’è stato anche un vincitore non numerico ma politico, il Centro, che a livello di deputati è ora la terza forza al Nazionale e la prima, confermata, agli Stati. Il partito del presidente Pfister è stato capace di non farsi intrappolare dalla crescente polarizzazione del panorama politico svizzero, tra destra e sinistra, e di dar così vita a quello che potremmo chiamare il «polo dei moderati». Un ruolo che potrebbe permettere al Centro di giocare sempre più la carta della mediazione, e di gettare le basi per soluzioni di compromesso.

A sinistra buona la tenuta dei socialisti, sconfitti invece i Verdi, che hanno perso cinque seggi al Nazionale, mentre agli Stati hanno dovuto incassare la bocciatura, a Ginevra, di Lisa Mazzone, una grande promessa del movimento ecologista che ora a soli 38 anni ha deciso di lasciare la politica dopo due legislature a Berna. Tra i perdenti, soprattutto dal punto di vista politico, anche i liberali radicali. Il PLR ha stretto alleanze elettorali con l’UDC e ha persino rinunciato a presentare propri candidati nei ballottaggi per il Consiglio degli Stati a vantaggio di esponenti democentristi. Una strategia che non ha dato i risultati sperati. Ora il PLR si trova in una posizione decisamente scomoda, un po’ schiacciato, tra Centro e UDC, con il rischio di doversi limitare ora a una politica al traino di questi poli. In ogni caso la legislatura che sta per iniziare chiamerà in causa anche in popolo, visto che da più parti fioccano iniziative e referendum. E qui c’è da dire che nel nostro Paese in media meno di un cittadino su due si reca alle urne. Una democrazia forte ha bisogno anche in questo ambito di un’inversione di tendenza. Altrimenti quello svizzero sarà sempre più un sovrano dimezzato.