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Quando le ferite si riaprono
Il conflitto in Medio Oriente mette ancora in crisi le relazioni tra Israele e la Chiesa cattolica. La necessità di fermare la follia della guerra
Giorgio Bernardelli
Sono tante le macerie che la guerra che da un mese e mezzo infuria dentro e intorno a Gaza sta lasciando dietro di sé. Ma non ci sono solo quelle fisiche: accanto all’altissimo numero di morti, vi sono anche ferite mai completamente rimarginate che tornano ad aprirsi. Per esempio sul crinale delle relazioni tra Israele, il mondo ebraico e la Chiesa cattolica. Da quando all’alba del 7 ottobre sono scattati i raid omicidi di Hamas, l’annosa questione del diritto dello Stato ebraico a difendersi è andata di nuovo a intrecciarsi con i fantasmi del passato. Perché da una parte è naturale per Israele vedere nella furia omicida contro donne e bambini dei kibbutz il ritorno dell’odio di sempre contro gli ebrei. Ma – dall’altra – il Vaticano non può per sua natura accettare come risposta una guerra che colpisce indiscriminatamente tutti i palestinesi, cristiani arabi compresi. Di qui una frattura che sta tornando a farsi profonda.
L’antisemitismo, infatti, è un tasto da sempre sensibile nei rapporti tra il mondo ebraico e la Chiesa cattolica. Al di là di tanti gesti recenti, pesano nella memoria secoli di antigiudaismo, fatto di pregiudizi nei confronti dei «perfidi ebrei», come venivano chiamati nella celebre preghiera del Venerdì Santo che solo Giovanni XXIII decise di cancellare. Riguardo alla stessa Shoah, il mondo ebraico della Chiesa cattolica ricorda tuttora la mancata condanna esplicita del nazismo da parte di Pio XII (preoccupato per le possibili conseguenze sulle comunità cattoliche nei Paesi soggiogati dal Reich) e i bambini ebrei battezzati di nascosto, molto più delle centinaia di sacerdoti, suore e semplici fedeli cattolici che lo Yad Vashem a Gerusalemme ha riconosciuto come Giusti tra le Nazioni per l’aiuto disinteressato offerto ai figli di Israele nell’ora più buia.
Certo, negli ultimi decenni vi sono stati punti di svolta a partire dalla dichiarazione Nostra Aetate adottata dal Concilio Vaticano II nel 1965 e dalla ripetuta condanna dell’antisemitismo da parte dei pontefici. Parole ribadite anche recentemente da papa Francesco in un discorso consegnato (però non pronunciato) a una delegazione di rabbini europei ricevuta in Vaticano. Per il mondo ebraico, però, la questione dell’antisemitismo, al giorno d’oggi, è inseparabile dalla difesa di Israele. Ed è su questo che le frizioni restano evidenti.
Il Vaticano ha a lungo guardato con sospetto al sionismo. A fare problema è in particolare la sovrapposizione tra Gerusalemme e la sua identità ebraica, a scapito di tutti gli altri «strati» della sua lunga storia. Se per il popolo ebraico la Città Santa è il cuore dell’Eretz Yisrael, la Terra delle proprie radici a cui ha continuato a guardare anche durante tutta la diaspora, per il mondo cattolico – che in questo stesso posto venera i luoghi dove Gesù è vissuto – è la casa della comunità cristiana delle origini, che qui vive da duemila anni e parla e prega in arabo, perché si riconosce parte di questa identità. Si capisce, allora, perché politicamente il Vaticano tenda a guardare con particolare attenzione alle sofferenze del popolo palestinese, tanto nella sua componente maggioritaria musulmana quanto nella sua piccola comunità cristiana.
Non significa ignorare le ragioni di Israele: la Santa Sede negli anni ha da tempo sposato la soluzione dei due Stati per i due popoli. E non è un caso che le relazioni diplomatiche tra il Vaticano e lo Stato di Israele siano arrivate con Giovanni Paolo II proprio nel 1993, nella stagione in cui con il processo di pace avviato a Oslo questa prospettiva appariva più vicina. Tanto è vero che poi, quando quel negoziato è fallito, Roma non ha rinunciato a portarla avanti, trasformando i rapporti con l’Autorità nazionale palestinese in un vero e proprio riconoscimento formale dello Stato della Palestina (cosa che le democrazie occidentali non hanno fatto).
Alla formula dei due Stati, però, la diplomazia vaticana aggiunge una postilla particolarmente indigesta per Israele: invoca uno «statuto internazionalmente garantito» per le tre comunità religiose (ebrei, cristiani e musulmani) a Gerusalemme. Una posizione difficilmente conciliabile con l’idea della Città Santa come «capitale unica e indivisibile» di Israele. E ancora di più con la crescita impetuosa in questi ultimi anni di un nazionalismo ebraico esclusivista a Gerusalemme. Ci sono state anche inchieste delle tv israeliane sul moltiplicarsi di atti di ostilità all’interno della Città Vecchia da parte dei gruppi ebrei ultra-ortodossi (gli «haredim») nei confronti dei religiosi cristiani.
Si inserisce, dunque, dentro a questo rebus complesso la guerra di Gaza. Dopo le stragi del 7 ottobre il Governo Netanyahu ha protestato formalmente per le parole con cui papa Francesco ha sì condannato le violenze e il rapimento degli israeliani, ma senza nominare espressamente Hamas. Da parte sua, nei ripetuti appelli per un cessate il fuoco immediato accompagnato dalla liberazione degli ostaggi, Bergoglio ha ben presente che sotto i bombardamenti dell’aviazione con la stella di Davide, in mezzo alla popolazione civile, c’è anche la piccolissima comunità cristiana della Striscia, poche migliaia di fedeli accanto a oltre un milione di musulmani. Anch’essa è stata colpita direttamente dalle rappresaglie israeliane contro gli islamisti: vi sono stati diversi morti tra quanti avevano cercato rifugio nel compound della storica chiesa ortodossa di San Porfirio, che veniva ritenuta un luogo sicuro.
Per questo papa Francesco continua a spendersi in prima persona per il cessate il fuoco: di recente ha parlato al telefono persino con il presidente iraniano Ebraim Raisi, referente politico fondamentale per Hamas. Ma questo bussare del papa anche alle porte dell’arcinemico a Teheran non fa che insospettire ulteriormente Israele. Mentre – come accade puntualmente a ogni ondata di questa lunghissima guerra – i confini tra la difesa della causa palestinese e l’antisemitismo si fanno pericolosamente labili. Fermare il prima possibile questa follia e rimettere davvero al centro il tema della pace in Medio Oriente è dunque fondamentale oggi anche per non far tornare indietro le lancette della storia nei rapporti tra il cristianesimo e quelli che Giovanni Paolo II amava definire i propri «fratelli maggiori».