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Ricerca di genere: il Nobel a Claudia Goldin

Lo scorso ottobre Claudia Goldin è stata insignita del Premio Nobel per l’Economia «per aver migliorato la nostra comprensione dei risultati del mercato del lavoro femminile». È la terza donna a vincere il Nobel per l’Economia. L’economista statunitense, nata a New York nel 1946, si è laureata in Economia alla Cornell University, ha poi conseguito il dottorato all’università di Chicago. Ha insegnato in diverse prestigiose università Usa e, dal 1990, è professoressa di Economia ad Harvard, prima donna ad assumere questo incarico nell’ateneo americano.

Dal 1989 al 2017 è stata direttrice del programma Development of the American Economy della NBER (il National Bureau of Economic Research, l’Istituto nazionale per le ricerche economiche), ed è codirettrice del Gender in the Economy Study Group del NBER. Le ricerche dell’economista sono incentrate sulla partecipazione e retribuzione femminile nel mondo del lavoro, soprattutto sul divario di genere nei guadagni, passando attraverso argomenti come il cambiamento tecnologico, l’istruzione e l’immigrazione. / Red.


Per l’emancipazione di tutta la società

I benefici della valorizzazione del lavoro di cura e dell’eliminazione della segregazione di genere che lo accompagna
/ 27/11/2023
Marialuisa Parodi

Al contrario dell’inglese, che può contare su due vocaboli distinti (health e care), nella nostra lingua l’espressione economia della cura comprende due diverse accezioni. Una riguarda l’economia legata alla salute, ormai sempre più spesso rappresentata a suon di contraddizioni: esplosione dei costi verso equità delle cure, scarsità di personale qualificato verso fragili condizioni di lavoro, crucialità degli investimenti verso vincoli di spesa pubblica, giusto per citare le più ricorrenti. L’altra si riferisce a un sistema economico che priorizza la cura delle persone e dell’ambiente, partendo dalla constatazione che la prosperità economica di una comunità non può prescindere da quella sociale e ambientale; un modello in cui l’azione di politica economica considera e rispetta la molteplicità di ruoli ed esperienze che si intrecciano nella vita di ogni essere umano.

Anche quando la lingua le separa, le relazioni tra la prima e la seconda accezione sono evidenti; anzi, si rafforzano ad ogni crisi. Pandemia, conflitti, ma anche invecchiamento demografico e minaccia climatica, ci stanno facendo riflettere sull’errore di aver confuso una bella parola come «economia» (oikos-casa e nomos-legge, amministrazione) con «massimizzazione dei profitti». Riappropriarsi del significato originale non dovrebbe più essere considerata un’ingenua utopia. Non lo è certamente per l’economia femminista che, proprio sulla valorizzazione del lavoro di cura e sull’eliminazione della segregazione di genere che lo accompagna, innesta una teoria di politica economica, monetaria e fiscale orientata alla sostenibilità e all’equità. È noto che di oltre il 70% della cura globale si occupano le donne; che sia prestata gratuitamente, fra le mura domestiche, o professionalmente, a stipendi bassi e talora incerti. La cura soffre della stessa drammatica sottovalutazione di cui soffrono i diritti femminili: veri e propri difetti sistemici, che non fanno bene all’umanità e alla qualità della crescita.

Il Nobel per l’Economia, assegnato quest’anno a Claudia Goldin per gli studi sulle conseguenze della distribuzione iniqua del lavoro domestico nella coppia, è un segnale importante. Goldin dimostra che questo divario orgina e alimenta le discriminazioni di genere nel mondo del lavoro e come queste ultime costituiscano un’inefficienza in senso squisitamente economico. Il valore anche simbolico di questo Nobel sta nella sua capacità di rispecchiare una generale, emergente presa di coscienza individuale.

Sebbene il post-pandemia sia apparso come un repentino ritorno al business as usual, i dubbi su stili lavorativi e di vita non sono stati archiviati con leggerezza. Anzi, le conclusioni di numerosi studi sulle grandi dimissioni (chi se ne va esausto, addirittura senza aver trovato un altro lavoro) o sul quiet quitting (chi resta, ma disinveste emotivamente e dà al lavoro solo il tempo indispensabile) concordano nell’identificare genitori e caregiver quali principali protagonisti di questi grandi trend globali. Sempre più uomini, non solo delle generazioni più giovani, apprezzano il tempo dedicato alla cura di sé e degli altri e hanno ormai iniziato ad aspettarsi che il posto di lavoro rispetti questa componente essenziale della vita. Non è un caso che le famose misure di conciliabilità e flessibilità organizzativa stiano vieppiù contribuendo a definire l’attrattività di un impiego, almeno, e forse più, di salario e opportunità di crescita professionale, e non più solo agli occhi delle lavoratrici.

Secondo il rapporto «State of The World’s Fathers 2023 – Centering Care in a World of Crisis» di recente pubblicazione, il lockdown avrebbe infatti permesso a molti uomini di esplorare in piena sicurezza psicologica (non c’era alternativa e riguardava tutti) il lavoro casalingo ed un nuovo modello di paternità; così sperimentando che le norme sociali di genere tendono a mortificare le inclinazioni individuali e, soprattutto, sono ingiustificatamente severe con le emozioni degli uomini, fino a privarli della gioia di prendersi cura dei figli e della gratificazione di costruire con loro relazioni significative e arricchenti fin dalla prima infanzia. Lo studio citato è stato realizzato da Equimundo e MenCare, con il sostegno di UNWomen; dal 2011 Equimundo riunisce diverse organizzazioni internazionali che coinvolgono uomini e ragazzi come alleati per l’uguaglianza di genere, promuovono un concetto sano di mascolinità e paternità, si occupano di giustizia sociale e di prevenzione della violenza.

Tra le 12’000 persone intervistate nello studio in 17 Paesi, emerge chiaramente che i padri hanno già accresciuto ruolo ed impegno in casa e famiglia e che desiderano fortemente continuare a farlo. Una buonissima notizia, per almeno due ragioni. Intanto perché questa esperienza libera emozioni positive e stimola a prendersi più cura di sé stessi, degli altri e del pianeta, ciò di cui l’umanità ha più fortemente bisogno. E poi perché si tratta di un’emancipazione di portata epocale, se consideriamo l’ostacolo finora posto dalla rigidità dei ruoli, di cui sono impregnate le norme sociali: per secoli hanno dettato ciò che appartiene e attiene al maschile e al femminile, inducendo una specializzazione di genere che oggi non ha più alcuna utilità per la specie.

La difficile sfida che ancora resta da vincere, invece, riguarda l’affermazione di politiche capaci di sostenere e accompagnare questa evoluzione. Pensiamo all’esempio tipico, che richiama anche il lavoro della professoressa Goldin: finché le condizioni di lavoro e il salario della madre resteranno strutturalmente peggiori, i genitori non potranno decidere con serenità che anche il padre goda del suo pieno diritto al congedo, senza mettere a rischio le finanze della famiglia. Ed è qui che le nuove aspirazioni degli individui convergono con i principi dell’economia femminista, che, mettendo al centro la cura e i divari da colmare, informa tutta la sua azione politica sulla risposta ai bisogni delle persone, piuttosto che al profitto fine a se stesso, così rendendo le comunità più forti, eque e sane, oltre che più prospere in modo sostenibile. Ci vorrà tempo per rivoluzionare le brutte abitudini degli ultimi decenni; ma il dibattito globale è animato ed una delle buone pratiche con cui i Governi stanno familiarizzando è quella del gender budgeting, volto ad individuare i diversi possibili riverberi della politica economica su uomini e donne.

In quest’ottica, la proposta di riequilibrio finanziario appena licenziata dal Consiglio di Stato ticinese è un esempio emblematico (Preventivo 2024 e primo pacchetto di misure di riequilibrio finanziario, Consiglio di Stato, 17 ottobre 2023). I tagli che colpiscono case anziani, servizi domiciliari, servizi per l’infanzia, centri extra-scolastici o strutture per invalidi, comportano un inequivocabile impatto di genere: le donne, in quanto madri, familiari curanti, operatrici del sociale, infermiere ed educatrici ne risultano prime destinatarie, proprio in ragione del loro più massiccio impegno negli ambiti di cura coinvolti. Certo, il vincolo della politica finanziaria del Cantone è il freno dei disavanzi, non il più generoso per governare le fluttuazioni fisiologiche del ciclo economico; ma questo non esclude la possibilità di integrare migliore consapevolezza e gestione degli effetti sul breve, medio e lungo termine, dell’accentuazione e perpetuazione dei divari esistenti. Una scelta che, oltretutto, contribuirebbe a rafforzare altri importanti obiettivi: lo sviluppo sostenibile e la responsabilità sociale, la qualità di vita e del lavoro, l’inversione di rotta della denatalità, l’inclusione del capitale umano femminile per contrastare la penuria di personale qualificato. La sfida è certamente complessa ma il cambiamento di paradigma non è impossibile; uno sforzo che la società e le nuove generazioni hanno tutto il diritto di aspettarsi dalla politica e a cui tutte e tutti abbiamo la responsabilità di contribuire.