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I perdenti americani della globalizzazione

Come siamo arrivati a questo punto? E perché Trump tiene duro su molti aspetti della sua politica protezionista, pur concedendo una tregua negoziale di novanta giorni ai Paesi europei?
/ 22/04/2025
Federico Rampini

Al lungo elenco dei nemici di Donald Trump possiamo aggiungere, ormai ufficialmente, anche il presidente della sua banca centrale. Jerome Powell, capo della Federal Reserve, ha espresso una dura requisitoria sugli effetti dei dazi: secondo lui è probabile che essi aumentino l’inflazione americana e pure la disoccupazione. È quindi uno scenario di «stagflazione», l’esatto opposto di quella età dell’oro che Trump aveva promesso nel giorno del suo giuramento. Powell ha aggiunto che il mestiere della banca centrale è diventato molto più difficile in questo scenario: se alza i tassi per contrastare l’inflazione, peggiora la disoccupazione, e viceversa.

Ma come siamo arrivati a questo punto? E perché Trump tiene duro su molti aspetti della sua politica protezionista, pur concedendo una tregua negoziale di 90 giorni ai Paesi europei? Affermare che la globalizzazione ha impoverito l’America, che gli accordi per la riduzione delle barriere commerciali sono stati usati da altre Nazioni (Cina, Messico, Germania, Giappone) per «fottere» gli Stati Uniti – come sostiene Trump – è naturalmente falso. La classe dirigente americana sapeva quel che faceva quando negli anni Novanta negoziò trattati come il Nafta con Canada e Messico, o l’adesione della Cina all’Organizzazione mondiale del commercio. Non erano ingenui i leader americani che firmarono quegli accordi, non fecero regali agli altri.

Però la stagione d’oro della globalizzazione non fu tale per tutta l’America e per tutti gli americani. L’apertura delle frontiere – alle merci come all’immigrazione – ha sempre avuto effetti potenti sulla distribuzione interna delle risorse. In ogni epoca storica e in ogni Paese. Ha creato dei vincitori e dei perdenti. È del resto quel che si deduce dall’indice statistico Gini che misura le diseguaglianze. La globalizzazione ha reso l’America più ricca nel suo insieme, l’ha proiettata verso un livello di benessere senza precedenti nella storia. Allo tempo stesso ha accentuato le diseguaglianze, per cui alcuni americani non l’hanno affatto vissuta come un periodo fausto. Tra i vincitori: molte aziende multinazionali, gran parte della finanza; e tutte quelle élite qualificate della forza lavoro che hanno avuto accesso a mercati globali e quindi hanno visto salire i propri redditi (un caso classico sono i talenti informatici della Silicon Valley, ma con loro tante altre professioni di fascia alta). Tra i perdenti: parte della classe operaia Usa, che ha sofferto per un doppia concorrenza, quella dell’operaio cinese pagato molto meno di lui in Cina, e quello dell’immigrato messicano pagato meno di lui in America stessa. Questo mondo dei perdenti americani della globalizzazione iniziò a ribellarsi votando per Ross Perot nel 1992; scendendo in piazza a Seattle contro il Wto nel 1999; simpatizzando con Occupy Wall Street oppure con il Tea Party Movement dopo la crisi del 2008; infine votando per Trump. Ma è utile ricordare che Barack Obama seppe per qualche tempo intercettare pezzi di questa protesta: bisogna andarsi a rivedere un memorabile dibattito televisivo nella campagna per la nomination democratica del 2008: in cui Obama attaccava George W. Bush (e spiazzava da sinistra la rivale Hillary Clinton) per non aver controllato l’immigrazione clandestina, e quindi per aver favorito i profitti dei padroni a scapito dei salari operai. Obama riprendeva il pensiero classico di Karl Marx: ne La questione irlandese alla fine dell’Ottocento aveva analizzato l’immigrazione come una leva potente in mano ai capitalisti inglesi per indebolire la loro classe operaia.

È un tema che il partito democratico ha tentato di non abbandonare a Trump. L’ex consigliere strategico di Joe Biden, Jake Sullivan, teorizzava una politica estera e del commercio «fatta su misura per i lavoratori americani» (perciò Biden mantenne i dazi del primo Trump, e vi aggiunse la politica protezionista affidata agli aiuti di Stato). Le voci della sinistra più radicale, alla Bernie Sanders, ammutoliscono quando si tratta di criticare i dazi. Il conflitto per la distribuzione del reddito nazionale è andato in scena quando le lobby di Big Tech hanno ottenuto esenzioni per le importazioni di computer e telefonini, molti dei quali vengono fabbricati in Cina dalle multinazionali Usa come Apple. I nostalgici dell’Età aurea delle liberalizzazioni sono loro: sono quelli che stanno al vertice della piramide delle diseguaglianze misurata dall’Indice Gini. Trump si ritrova a fare da mediatore o arbitro fra queste due Americhe: se ascolta il top management delle multinazionali, la guerra dei dazi sarà breve e si concluderà con dei compromessi; se ascolta la base operaia il danno per gli altri Paesi sarà superiore. In ogni caso il bilancio finale lascerà qualche traccia sui rapporti fra le classi sociali all’interno degli Stati Uniti.

Per capire il mondo dei dazi, per cercare di prevedere le prossime mosse di Donald Trump, a chi ci dobbiamo affidare? Decifrare l’America no-global di destra impone uno sforzo di aggiornamento culturale. A parte il personaggio del presidente, che spesso agisce d’istinto, e si lascia guidare da convinzioni «primitive» (la sua prima intervista pro-dazi risale al 1987), i veri teorici del protezionismo esistono. Vista la loro influenza nella Nazione più ricca e potente del pianeta, questi intellettuali organici alla destra vanno presi sul serio. Altrimenti non si capisce perché il partito dei dazi ha prevalso finora sui cosiddetti oligarchi – Musk in testa – che questi dazi non li vogliono affatto. Alla ricerca di una «teoria dei dazi», un punto di riferimento è il think tank American Compass, di area MAGA (Make America Great Again). Uno dei suoi studiosi di punta ne è il fondatore, è il giovane economista Oren Cass. Leggerlo è utile per capire le convinzioni profonde di un’America che da tempo si sente tradita, truffata, e oggi decide di voltare le spalle a quella globalizzazione che fu una sua creatura (o per meglio dire, una creatura del suo establishment). Ecco il pensiero di Oren Cass:

«Donald Trump dà il meglio di sé quando si appropria di una posizione di buon senso che, per di più, risulta corretta, lasciando sconcertati gli esperti tecnocrati intenti a imporre al Paese una visione che appare assurda e si rivela, in effetti, sbagliata. La sua insistenza nell’inquadrare le prossime mosse della sua amministrazione in materia di commercio in termini di “reciprocità” ne è un esempio perfetto. Gli Stati Uniti, secondo la logica di Trump, abbracceranno il libero scambio solo nella misura in cui anche i loro partner commerciali lo faranno e solo se ne deriverà un commercio reale, concreto, genuino. “Ma non funziona già così?”. No, assolutamente no. La reciprocità dovrebbe essere il fondamento del sistema commerciale internazionale, ma molti Paesi hanno ignorato questa aspettativa e gli Stati Uniti hanno ripetutamente chiuso un occhio. Per far continuare la festa, gli economisti hanno costruito una narrazione in cui la reciprocità era superflua. Lasciamo che gli altri si comportino come vogliono, diceva il racconto, gli Stati Uniti trarranno comunque beneficio aprendo il proprio mercato a tutti. Trump ha ripetutamente chiarito che la sua frustrazione riguarda lo squilibrio commerciale: gli Stati Uniti hanno un deficit annuo di 1000 miliardi di dollari, che riflette beni prodotti all’estero per il nostro consumo, che acquistiamo inviando in cambio proprietà di immobili e aziende, debito del Tesoro che rappresenta semplicemente un “pagherò”. In questo modo erodiamo simultaneamente la nostra capacità industriale nel breve termine e inviamo all’estero i diritti sulla nostra prosperità futura. Come ha osservato l’imprenditore-economista Warren Buffett: “Il nostro Paese si è comportato come una famiglia straordinariamente ricca che possiede un’enorme fattoria… Giorno dopo giorno, abbiamo venduto pezzi della fattoria e aumentato l’ipoteca su ciò che ancora possediamo”».