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Dazi americani, come ne esce la Svizzera?
Nei confronti di Washington Berna sa di poter esibire delle buone carte ma Donald Trump resta imprevedibile e le strade da percorrere piuttosto accidentate
Roberto Porta
Sono giorni davvero tumultuosi. Dazi e contro-dazi, annunci, smentite e qualche frase grossolana, con Donald Trump che parla persino del suo fondoschiena e di baci in arrivo un po’ da tutto il mondo per convincerlo a scendere a più miti consigli. Arduo capire chi abbia avuto la meglio nell’improvviso voltafaccia del presidente. Se sia stato l’effetto di quei presunti baci o se a farsi valere siano state piuttosto le pressioni giunte dalla corte di miliardari che lo ha portato al trono lo scorso 20 gennaio. Con Elon Musk che ha dato dell’illustrissimo ad uno dei consiglieri più fidati del presidente in materia di tariffe doganali. Oppure, ancora, se a spingerlo a cambiare idea siano state le pressioni di Wall Street e i tonfi dei mercati di tutto mondo, basti dire che in una settimana la borsa svizzera ha bruciato i guadagni incassati nel corso dell’intero 2024. Terremoti che hanno portato anche ad una forte pressione al ribasso sulle obbligazioni pubbliche statunitensi, non certo un bel segnale per un Paese altamente indebitato come gli Stati Uniti. Sta di fatto che all’improvviso The Donald si è rimangiato tutto o quasi, concedendo al mondo un «time out» di novanta giorni, ufficialmente perché 75 Paesi – tra cui anche la Svizzera – si sono detti pronti a negoziare con lui, non solo sui dazi ma anche su altre questioni, come per esempio gli ostacoli tecnici al commercio o quelle che Trump chiama «manipolazioni monetarie».
Tre mesi di tempo concessi ai «Paesi approfittatori» per cercare di trovare delle soluzioni che riescano a calmare le acque, con un dazio di base del 10% che rimarrà comunque in vigore per tutte le merci in entrata negli Stati Uniti. E con una guerra commerciale incandescente con la Cina, fatte salve altre e improvvise sterzate, perché anche Pechino «vuole un accordo ma non sa da che parte iniziare, sono persone orgogliose», ha fatto sapere l’inquilino della Casa Bianca mercoledì scorso, poco ore dopo aver messo fine, seppur provvisoriamente, alla guerra commerciale che aveva aperto con il mondo intero, mercoledì 2 aprile, il «giorno della liberazione». E la Svizzera dentro tutto questo guazzabuglio? Come ne esce, o meglio come sta tentando di uscirne? Nei confronti di Washington, Berna sa di poter esibire delle buone carte, ad iniziare da un dato di fatto che fa da cornice a tutta questa problematica. Dal primo gennaio dell’anno scorso il nostro Paese non applica più nessun dazio sulle importazioni, ad eccezione di quelle che riguardano i prodotti agricoli. La Svizzera inoltre è il sesto Paese investitore negli Stati Uniti, il primo se si considera solo il settore della ricerca e dello sviluppo. Negli Usa gli imprenditori elvetici hanno creato quasi mezzo milione di posti di lavoro, con stipendi medi che si aggirano attorno ai 130mila dollari all’anno. «Salari di tutto rispetto», ha fatto notare di recente la presidente della Confederazione, Karin Keller Sutter. Il problema sta nel fatto che nelle prime settimane del regno di «Donald II», Berna non è riuscita a giocare queste carte sul tavolo giusto.
A poco è valsa in febbraio una prima, discreta, visita a Washington di Helene Budliger Artieda, la segretaria di Stato per l’economia. Ci voleva decisamente di più. E il Consiglio federale se ne è accorto solo con la doccia fredda del «Liberation day» e di quei dazi posti al 31%, con Trump ad indicare la Svizzera tra i Paesi da punire, su un cartellone di quelli che si trovano al massimo al mercato del pesce. Il giorno successivo, il 3 aprile, il Consiglio federale ha dovuto ammettere la sua impotenza per non essere riuscito, perlomeno fino a quel momento, a raggiungere il presidente degli Stati Uniti e la sua ristretta cerchia di consiglieri. Un’ammissione che aveva suscitato diverse critiche, con il Consiglio federale accusato di passività, e anche di ingenuità, in un frangente così delicato. Da lì è poi scattata un’operazione diplomatica su più livelli per cercare di far capire a Trump che la bilancia commerciale con il nostro Paese è sì a sfavore degli Stati Uniti ma che ci sono diversi altri fattori da tenere in considerazione nei rapporti tra gli Stati Uniti e la Svizzera. Helene Budliger Artieda è tornata a Washington per intensificare la sua azione di lobbista, anche con l’aiuto di un’agenzia specializzata in pubbliche relazioni. A quanto pare da Berna sono partite telefonate anche all’ex ambasciatore americano in Svizzera, Ed McMullen, persona molto vicina a Trump, che in un’intervista rilasciata alla «Sonntagszeitung» ha assicurato di essere già al lavoro per aiutare il nostro Paese.
Mosse che hanno permesso a Guy Parmelin, il nostro ministro dell’economia, di avere un colloquio con Jamieson Greer, il nuovo responsabile dell’Ufficio americano per il commercio estero. Un primo approccio, a cui ha fatto seguito, mercoledì scorso, la telefonata di Karin Keller Sutter a Donald Trump. In tutto 25 minuti, uno scambio di vedute in cui la presidente della Confederazione ha spiegato la posizione della Svizzera «e pure le possibilità che ci sono per cercare di raggiungere gli obiettivi che si prefissano gli Stati Uniti. Abbiamo concordato di proseguire i colloqui nell’interesse di entrambi i Paesi», ha scritto KKS su X. Un colloquio che per il «Washington Post» potrebbe persino aver pesato sulla successiva decisione di Trump di bloccare l’aumento dei dazi. Prima di quella telefonata il Consiglio federale aveva deciso di creare un «comitato di pilotaggio», sotto la direzione del ministro degli esteri Ignazio Cassis, con il compito di curare le relazioni con gli Stati Uniti. Una struttura che avrà anche un inviato speciale negli Usa, si tratta dell’ambasciatore Gabriel Lüchinger, al momento responsabile della divisione sicurezza del Dipartimento federale degli affari esteri. Nel 2024 Lüchinger è stato la figura trainante nell’organizzazione della Conferenza del Bürgenstock sull’Ucraina e vanta parecchi contatti a Washington.
Il Governo gioca dunque questa ulteriore carta, che permette a Ignazio Cassis di prendere la guida delle operazioni e che sembra relegare ad un ruolo di comprimario il ministro dell’economia Guy Parmelin. Nei prossimi tre mesi il nostro Paese non può permettersi passi falsi, dovrà trovare il giusto equilibrio tra le richieste di Trump e la difesa dei propri interessi. E qui c’è chi parla di un possibile aumento degli investimenti elvetici in terra americana e forse anche di qualche concessione sull’importazione di beni agricoli pur di evitare dazi da capogiro. Con una certezza: l’assoluta imprevedibilità di Trump, da cui, come ha detto KKS un paio di settimane fa, sono arrivati calcoli che lasciano pensare che 1+1 possa fare anche 3.