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La pace comincia dal vocabolario

/ 24/03/2025
Carlo Silini

«Se verrà la guerra, Marcondiro’ndero, se verrà la guerra, Marcondiro’ndà, sul mare e sulla terra, Marcondiro’ndera, sul mare e sulla terra chi ci salverà?». A sentirle oggi, le ballate pacifiste di Fabrizio De André suonano ancora più tragiche e vere. Sono canzoncine allucinate per bambini che crescono in un mondo tanto violento che è meglio cantarci sopra. La guerra è già scoppiata, Marcondiro’ndero, e adesso vai a capire chi ci aiuterà.

È già scoppiata nei fronti noti e meno noti ed è esplosa dentro le radio, le tv e i giornali. Un giorno sono i raid americani nello Yemen a salutare il nostro risveglio. Il giorno successivo, puntuale come un raffreddore quando dimentichi il maglione, arriva la risposta dei ribelli Houti contro una portaerei statunitense. Nello stesso tempo i proiettili si incrociano lungo il confine tra la Siria e il Libano. In Siria, tra l’altro, i nuovi governanti massacrano con scrupolo purificatore i seguaci di quelli vecchi. All’alba del giorno dopo viene violata la tregua a Gaza, con attacchi israeliani che provocano oltre 400 morti, come al solito senza distinzione di bersaglio fra terroristi e civili. E nel sud del Sudan un’incursione aerea lascia sul terreno «solo» sei cadaveri, tra loro quelli di due bambini. Proviamo a rilassarci quando ci dicono che, per gentile concessione, gli attacchi contro gli impianti energetici in Russia e Ucraina verranno sospesi per trenta giorni, poi salta fuori che si è smesso di colpire le centrali elettriche, ma si va avanti a bombardare gli uomini, che costano molto meno.

Con la canzone di De André che gira in testa, cerchiamo nuove parole di pace perché quelle che sentiamo puntano, al massimo, alla tregua, che è come trattenere l’aria sott’acqua prima di riemergere tra bombe e raffiche di mitra. O mirano alla quantificazione del bottino per chi si è portato più avanti sul campo di battaglia.

Sarebbe bello strappare le armi a chi offende per consegnarle a chi si difende. Perché essere contro la guerra – l’Europa se n’è accorta con ottant’anni di ritardo (leggete Rampini a pag. 11) – non significa rinunciare a proteggersi. Nel frattempo, dovremmo disinnescare le trappole mentali che ci spingono verso nuovi bagni di sangue.

Entriamo perciò in una stanza d’ospedale a Roma e ascoltiamo la voce di un vecchio malato che con i suoi pensieri interpella non solo i giornalisti, ma ognuno di noi: «Vorrei incoraggiare tutti coloro che dedicano lavoro e intelligenza a informare, attraverso strumenti di comunicazione che ormai uniscono il nostro mondo in tempo reale – ha detto nei giorni scorsi Papa Francesco – : sentite tutta l’importanza delle parole. Non sono mai soltanto parole: sono fatti che costruiscono gli ambienti umani. Possono collegare o dividere, servire la verità o servirsene. Dobbiamo disarmare le parole, per disarmare le menti e disarmare la Terra. C’è un grande bisogno di riflessione, di pacatezza, di senso della complessità».

Difficile proporre una narrazione più controintuitiva e necessaria di quella di Jorge Mario Bergoglio. Il suo non è un discorso arcobaleno col simboletto della colomba. Non è uno slogan sessantottino. Se vogliamo disarmare gli aggressori non dobbiamo mettere fiori nei loro cannoni, ma prenderci cura delle nostre parole nei dibattiti pubblici, a casa o al bar, introdurre la merce rara dell’ascolto attivo prima di rispondere. Il senso della misura, la rinuncia al linguaggio aggressivo, la scelta di discorsi che costruiscono ponti piuttosto che muri. Non abbiamo il potere di disinnescare le testate nucleari e le mine, ma possiamo disarmare le nostre parole. La pace comincia dal vocabolario.