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Gli effetti di Trump sull’Europa
Dall’economia al riarmo, passando per la guerra in Ucraina: ora il Vecchio Continente è obbligato a svegliarsi
Federico Rampini
Sull’Ucraina il suo esordio come mediatore di una tregua è stato deludente, ma almeno Donald Trump aiuta l’Europa a diventare adulta? Ancora stentiamo a prendere le misure della rivoluzione copernicana in atto in Germania. L’abbandono dell’avarizia nella spesa pubblica è la risposta più positiva e benefica alla sfida di Trump. Il neo-cancelliere Friedrich Merz prende atto implicitamente che Trump ha ragione a denunciare i macro-squilibri del commercio internazionale. Al di là delle antiche storture create dai protezionismi (quello cinese e quello europeo precedono di molto quello americano), c’è un elemento strutturale ben più importante dei dazi: Paesi come Cina, Germania, Giappone e Italia hanno voluto costruirsi molti decenni fa un modello di sviluppo trainato dalle esportazioni, che dava per scontato l’accesso a un mercato americano apertissimo e vorace; quei modelli trainati dall’export presuppongono una compressione della domanda interna (bassi salari e bassi consumi; alti risparmi; dove «bassi» e «alti» va inteso soprattutto relativamente al modello Usa che ha le paghe operaie più alte del mondo e i consumi più elevati).
Un modo serio e positivo per venire incontro alla sfida di Trump è alzare la domanda interna in quei Paesi. Lo strumento più veloce per arrivarci è attraverso gli investimenti pubblici. È quel che sta pianificando Merz. Se si realizza, l’intera Europa ne trarrà vantaggio, perché finalmente avrà la sua locomotiva interna anziché dipendere da quella americana.
Trump «salva l’Europa da se stessa». Sul tema del riarmo Trump forse finirà per avere un effetto miracoloso: sveglierà la «Bella addormentata nel bosco europea» dal suo letargo geopolitico, dalla sua illusione di essere la prima superpotenza erbivora della storia umana. La lunga ibernazione delle coscienze europee ha fatto ignorare gli imperialismi carnivori i cui appetiti crescevano da molti anni (Russia, Cina, Iran, Turchia). Ora qualcosa si è mosso, grazie ai modi brutali con cui The Donald pone certe questioni all’attenzione di tutti.
Resta l’Ucraina. Finora, vista la pessima partenza – la mini-tregua offerta da Putin è deludente, le sue richieste rimangono pericolose e inaccettabili – l’unico risultato concreto della mediazione americana è di avere messo in difficoltà gli alleati europei. Una buona notizia è che almeno per adesso Trump non ha mollato, la fretta di ottenere qualcosa non lo ha indotto a concessioni precipitose e sconsiderate (per esempio la fine degli aiuti militari a Kiev). La pessima partenza del dialogo tra America e Russia suggerisce di prestare attenzione a un’ipotesi: che Putin non sia affatto interessato a cessare questa guerra. Forse Putin si è affezionato alla sua «economia di guerra», ne ha bisogno per preservare e consolidare il suo potere, mentre teme che una pace gli farebbe esplodere una serie di problemi interni.
Un’avvertenza è necessaria. La nostra capacità di decifrare Putin è difettosa. Questo è normale quando si ha a che fare con un regime autoritario, che pratica la censura e non esita a uccidere i dissidenti. Ci mancano delle «voci dall’interno» autorevoli e credibili. Abbiamo un’idea vaga e forse sbagliata sullo stato dell’opinione pubblica in Russia. Di conseguenza, troppo spesso abbiamo inseguito piste improbabili, magari scambiando i nostri desideri per realtà. Con qualche imbarazzo, dovremmo ricordare quante volte i media occidentali diedero Putin per malato terminale, moribondo. Oppure con quanta fretta venne decretato il successo della Divisione Wagner nella sua breve rivolta e «marcia su Mosca» (presto abortita). Su un altro fronte, in Occidente si è spesso sopravvalutata l’efficacia delle sanzioni, sono circolate analisi rassicuranti (per noi) su un’economia russa allo stremo, su un Putin con l’acqua alla gola, bisognoso di far cessare le sanzioni. O su improbabili mediazioni cinesi che lo avrebbero indotto alla ragione. L’elenco degli errori occidentali è sterminato e dovrebbe consigliarci umiltà.
In una analisi che appare sul «New York Times», il giornalista russo (in esilio) Mikhail Zygar spiega perché Putin non vuole una vera tregua, tanto meno una pace durevole. Secondo lui l’economia di guerra, cioè la riorganizzazione delle attività produttive e del mondo del lavoro, per convogliare risorse ed energie verso il settore bellico, sta generando dei benefici. Equivale a una politica keynesiana di «spesa pubblica in deficit» che sostiene la crescita della Nazione. Diffonde ricchezza in alcune regioni che erano rimaste sottosviluppate. Infine consente a Putin un ulteriore rafforzamento del suo controllo sui centri del potere economico e sulla società civile. Anche le correnti di dissenso interne, le fazioni rivali nel suo regime, sono silenziate e costrette alla disciplina patriottica finché la guerra dura. Una economia di guerra ha molti difetti, la sua crescita può essere «drogata» e squilibrata, ma di sicuro lo Stato ne viene esaltato per la sua centralità. Zygar aggiunge i pericoli dello scenario opposto. Una tregua durevole, o addirittura una pace, farebbe tornare dal fronte una massa sterminata di riservisti (circa un milione), con il loro potenziale destabilizzante: non è detto che Putin sia capace di dargli lavoro subito, e chi ha combattuto al fronte in un contesto di pesanti perdite umane può essere portatore di un risentimento feroce. Insomma, secondo l’autore «Putin ha finito per amare questa guerra, non può più farne a meno».
Se questa tesi si rivelasse fondata, le delusioni per Trump sarebbero appena iniziate. Putin prolungherà il negoziato all’infinito, insistendo su richieste massimaliste. Disarmo e neutralità dell’Ucraina. Rifiuto di qualsiasi forza militare straniera d’interposizione o peace-keeping. Concessioni territoriali «definitive», riconosciute dalla comunità internazionale, e forse anche al di là dei territori già occupati dall’esercito russo con la sua aggressione criminale. In questo gioco al rialzo Putin potrebbe rilanciare anche un tema che iniziò ad agitare dal 2007: un pieno recupero della sfera d’influenza di Mosca nell’Europa centro-orientale, con il ritiro dei soldati statunitensi entro i vecchi confini della Nato pre-1990. Questo significherebbe sguarnire Polonia e Paesi Baltici, fra l’altro. Se alcune di queste richieste risulteranno inaccettabili perfino per Trump, amen. Nell’ipotesi che Putin si sia affezionato alla guerra, non ha fretta di venire incontro a Trump. A meno che sia Trump a concedergli tutto: una vittoria così completa da farlo passare alla storia come il restauratore di un impero.