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L’America che ci è cresciuta dentro

/ 10/03/2025
Carlo Silini

Quando la mattina sollevo la testa dal letto ho paura della radiosveglia, che parte al momento del primo bollettino informativo: non so mai cosa uscirà dall’etere, quale altro incubo mi raggiungerà d’oltre oceano. Posso spegnere la radio, ma non l’arbitrio di Trump e della sua corte di lacchè, composta da servi ingordi, visto che sono già straricchi e non avrebbero alcun bisogno di accucciarsi ai piedi di nessun padrone. Chiaro che se poi gli si presenta un poveraccio senza giacca e cravatta che rifiuta di genuflettersi davanti al trono, danno fuori di matto. Strisciano loro che possiedono l’universo, non striscia lui che ha le scarpe rotte?

Comunque, possiamo smettere di ascoltare le notizie, ma non possiamo cancellare la nuova America dal mondo, cosa che in realtà dispiacerebbe per i tanti americani «buoni», che senz’altro continuano ad esistere, ma da qualche tempo non si sentono quasi fiatare, tranne qualche democratico che ha disertato il discorso alla nazione di Trump e qualche deputata e senatrice che vi ha assistito in tenuta rosa, «per dimostrare l’unità delle donne» contro il governo macho e sessista.

Se l’America di oggi è quello che è e non possiamo tornare indietro nel tempo, c’è chi pensa valga la pena di boicottarla. Qualcuno ha già cominciato a farlo, come la società norvegese Haltbakk che dopo la visita di Zelensky a Washington, pittorescamente definita «il più grande merdaio mai presentato in diretta alla televisione dall’attuale presidente americano», ha deciso di non fornire più carburante alle navi americane, come scrive «Le Monde», elencando altre iniziative simili. Per esempio, il gruppo danese «Boycott varer fra Usa», che – complice l’indignazione per la pretesa trumpiana di papparsi la Groenlandia – ha raccolto decine di migliaia di follower su Facebook. E anche questo fa un po’ ridere, visto che Facebook appartiene a Mark Zuckerberg, uno dei danarosissimi lacchè di cui sopra. Un altro gruppo analogo è sorto in Svezia, pubblicando liste di prodotti Usa da non comperare, forse l’unica forma di guerra che può turbare gli Stati Uniti e i suoi nuovi signori. Anche Canada e Messico (due ormai ex alleati storici, come l’Europa) e Cina, dopo l’annuncio dei dazi al 25% contro i loro Paesi, pensano a misure uguali e contrarie contro gli States.

Perché il borsellino è l’organo più sensibile degli inquilini della Casa Bianca. Malgrado il crollo di vendite di Tesla nel Vecchio continente, Elon Musk, che si definisce «first buddy» (miglior amico) di Trump, secondo l’agenzia Bloomberg ha guadagnato almeno 613 miliardi di dollari dal giorno della sua elezione. Quando si dice «amicizia disinteressata».

Ciò detto, rinunciare ai prodotti americani significa spogliarsi di un bel po’ del nostro mondo fisico, mentale e simbolico. Anche per questo ci sentiamo traditi da Trump. La presenza di marche Usa in Europa è pervasiva in numerosissimi campi: dalle catene di fast food ai social media come X e Facebook, ai telefonini, ai computer, alle grandi piattaforme di intrattenimento tipo Netflix.

Abbiamo l’America sottopelle, nell’immaginario hollywoodiano che ha forgiato i nostri sogni, nei fumetti, nella musica, nella letteratura, nella cultura libertaria che costituisce uno dei suoi punti di maggiore fascino, nei beni di consumo e negli oggetti che ci circondano e da cui sarebbe straniante separarsi. Le alternative esistono, come spiega Mattia Pelli su Azione esplorando il caso dei social network sorti per sfuggire alla dittatura degli algoritmi gestiti dai paggetti di Trump. Ma ci vuole un doloroso sussulto d’orgoglio e di volontà per sottrarsi all’America che ci è cresciuta dentro senza che ce ne accorgessimo.