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Zelensky: lo strappo tra Europa e Stati Uniti
La determinazione del presidente ucraino nel contraddire Trump l’ha catapultato di nuovo al centro del palcoscenico globale ma la guerra intanto prosegue e le prospettive – per Kiev che si stringe all’Ue – non sono rassicuranti
Anna Zafesova
C’è uno strano destino politico che rende Volodymyr Zelensky (nella foto) e Donald Trump reciprocamente fatali l’uno per l’altro. Il presidente degli Stati Uniti non nutriva molte simpatie verso il leader ucraino già dal suo primo mandato, quando gli chiese, nel 2019, di incriminare Hunter Biden, il figlio del candidato democratico che aveva fatto affari a Kiev. In caso contrario, disse, avrebbe tolto agli ucraini gli aiuti militari necessari a contenere i russi nel Donbass. Zelensky oppose un cortese rifiuto, la telefonata venne fatta filtrare ai media costando a Trump una procedura di impeachment. Il repubblicano segnò il presidente ucraino nella lista dei suoi nemici personali. All’epoca il blocco degli aiuti venne superato da un voto bipartisan del Congresso di Washington, dove all’inizio del 2024 i trumpiani erano tornati a bloccare l’invio del pacchetto di armi americane stanziato da Joe Biden. Lo stop, superato dall’amministrazione democratica solo dopo diversi mesi, aveva messo in grave difficoltà gli ucraini al fronte, e fu uno dei motivi che permise ai russi di riprendere l’avanzata sul terreno, dopo un anno di stallo. E intanto, man mano che le chances di vittoria del candidato repubblicano aumentavano, i suoi collaboratori annunciavano piani sempre più drastici per «chiudere la guerra della Russia contro l’Ucraina in 24 ore», come prometteva Trump, dove l’interruzione degli aiuti a Kiev era di nuovo il punto cardine di una strategia per altri versi molo vaga.
L’umiliazione inflitta a Zelensky nello Studio Ovale non può essere compresa appieno senza rievocare questi precedenti, e senza capire che per Trump il presidente ucraino viene associato al mondo dei suoi detrattori, in primo luogo i democratici, i liberal e gli europei. Così come è difficile capire il comportamento di Zelensky senza ricordarsi che tutta la sua carriera al Governo, il suo stesso personaggio politico – e ancora prima cinematografico, quando aveva interpretato il presidente ucraino nella serie televisiva Servo del popolo, nata come satira per diventare una sorta di programma elettorale – si evolve attraverso una serie di «no» clamorosi. Da quello detto a Trump nella telefonata dell’Ucrainagate al rifiuto di fuggire da Kiev, il 24 febbraio di tre anni fa, quando pronunciò la celebre frase: «Ho bisogno di munizioni, non di un taxi». La determinazione del presidente ucraino nel contraddire pubblicamente uno degli uomini più potenti al mondo, leader di una potenza dalla quale dipende almeno in parte la sopravvivenza del suo Paese, l’ha catapultato di nuovo al centro del palcoscenico globale. È stato applaudito in una solidarietà bipartisan dai leader europei, accolto a braccia aperte da Carlo III, in un esplicito messaggio alla Casa Bianca, è stato acclamato dalle piazze di mezzo mondo (dove sono scesi anche molti suoi ex critici soprattutto di estrema sinistra, che ora vedono nell’Ucraina la sfida all’imperialismo americano), ed è più che mai un eroe nel suo Paese.
I meme che lo paragonano a Churchill riempiono i social, e anche molti ucraini che non l’avevano votato ora gli ribadiscono il loro pieno appoggio. Un destino incredibile, per l’ex comico di Kryvyj Rih, che a 47 anni non solo è uno dei leader più popolari a livello globale, ma che negli ultimi tre anni – e soprattutto nelle ultime settimane – è stato il protagonista della grande rottura tra l’Europa e gli Stati Uniti. Non c’è leader – non solo europeo – che in questo momento non si immagini nella stessa poltrona dello Studio Ovale, e l’annunciato disimpegno di Trump rispetto alla sicurezza europea sta operando una rivoluzione copernicana nel Vecchio Continente, messo di fronte alla minaccia reale dall’est. Il problema per l’Ucraina è che il suo presidente è già entrato nella storia, ma la guerra intanto prosegue, e in attesa di una proposta di pace da Washington, Vladimir Putin continua a bombardare le sue città. E i numeri sono impietosi: è vero che l’Europa ha ormai da tempo superato gli americani nella quantità degli aiuti all’Ucraina, ma è vero anche che per quanto riguarda la quantità e la qualità delle armi fornite a Kiev sostituire il vuoto americano in tempi brevi sarà impossibile. L’ira di Trump ha purtroppo una espressione concreta di migliaia di vite, di militari e di civili, motivo per il quale il presidente ucraino ha teso alla Casa Bianca un ramo di ulivo, rendendosi anche conto che una impennata di orgoglio verrebbe applaudita oggi, ma tra sei mesi, sotto le bombe che cadono su Kiev non più protetta dall’antiaerea made in Usa, sarebbe potuta apparire un errore.
Se anche lo scontro con Trump venisse archiviato senza conseguenze, al leader ucraino rimarrebbe da giocare una partita estremamente delicata. Putin esige pubblicamente la sua testa, e Washington probabilmente non ha particolari obiezioni a concedergliela. Per gli ucraini Zelensky però è il volto della resistenza, e il suo peso diplomatico e mediatico lo rende insostituibile a livello internazionale. Oltre a rappresentare un simbolo di sottomissione, le sue eventuali dimissioni genererebbero un vuoto istituzionale: una campagna elettorale in un Paese in guerra, con più di 10 milioni di profughi tra sfollati interni ed emigrati, un quinto del territorio occupato e un milione di soldati al fronte, appare francamente impossibile, e le forze politiche più disparate sono unanimi nel voler rinviare ogni resa dei conti alla fine del conflitto. Nello stesso tempo, resta difficile da immaginare un ritorno alla cooperazione con gli Stati Uniti sempre più isolazionisti, almeno fino a quando scopriranno di incontrare più ostacoli a Mosca che a Kiev. Putin infatti conserva un soddisfatto silenzio, ma la lista delle sue richieste, territoriali e strategiche, per ora non è cambiata di una virgola, almeno ufficialmente, e i suoi diplomatici hanno già detto di no alle ipotesi di una forza di pace europea, come all’idea di «congelare» il conflitto lungo la linea del fronte esistente. Motivo per il quale a Volodymyr Zelensky ora conviene accettare la proposta di Emmanuel Macron di una tregua di un mese, e mostrarsi conciliante verso Trump, passando la palla in territorio russo, mentre consolida la nuova alleanza con l’Europa.