azione.ch
 



Serve un patto tra sognatori

/ 17/02/2025
Carlo Silini

Nel passaggio tra il 2024 e il 2025 la Chiesa cattolica ha avviato un nuovo Giubileo «della speranza», evento che nell’arco di un anno riverserà su Roma, secondo le stime, 32 milioni di pellegrini. Rispetto al Giubileo wojtyliano del Duemila, che riempiva le prime pagine dei giornali, la maggior parte dei media è molto più concentrata sull’uragano Trump che sulle aperture delle Porte Sante o sulle declinazioni a tappe della remissione dei peccati, concetto faro di ogni Giubileo cattolico.

Può darsi che il disinteresse dipenda da un generalizzato calo di consensi attorno alle chiese (non solo quella cattolica), come attestano i dati dell’anno scorso sugli abbandoni in Svizzera delle comunità religiose d’origine. O forse dall’idea «folle» di celebrare la speranza mentre il pianeta viaggia in direzione contraria, quella della disperazione programmata, delle guerre visibili e invisibili, delle paci indecenti, delle vittime predestinate a restare tali, e dell’uso del ricatto militare, economico e politico come strumento sistematico di (mal)governo.

Sarebbe una buona ragione per prestare qualche laica attenzione a un evento religioso che fa di questa virtù, la speranza, un faro nelle tenebre del presente. Che si sia credenti o meno – infatti – sperare è una scelta controcorrente, un atto di ribellione al cinismo che accompagna la caduta di civiltà a cui stiamo assistendo. Forse solo una religione che crede nell’aldilà può permettersi il lusso, oggi, di indicare questa strada al mondo disilluso dell’«aldiqua». Eppure, non mancano, nella società civile, movimenti convinti che «un altro mondo è possibile», come si gridava nei cortei all’inizio del millennio. Ci vorrebbe un patto tra sognatori, credenti e non credenti, tra tutte le forze di resistenza alla presunta ineluttabilità della legge del più forte.

Ci vorrebbe che le voci dell’utopia si moltiplicassero, che non ci fosse solo Papa Francesco a fare il controcanto del potere maiuscolo dei nuovi padroni del mondo. Tra i «grandi» della Terra, la sua è rimasta una delle pochissime, forse l’unica contro-narrazione della realtà. Come quando, scrivendo ai vescovi statunitensi, ha usato argomenti al vetriolo sul programma trumpiano di deportazione di massa di immigrati e rifugiati clandestini: «Un autentico Stato di diritto – ha scritto – si verifica nel trattamento dignitoso che meritano tutte le persone, soprattutto le più povere ed emarginate (…). La coscienza rettamente formata non può che esprimere un giudizio critico e manifestare il proprio dissenso verso qualsiasi provvedimento che identifichi, tacitamente o esplicitamente, la condizione irregolare di alcuni migranti con la criminalità». «Ciò che si costruisce sulla base della forza e non sulla verità, sulla pari dignità di ogni essere umano – conclude – inizia male e finirà male».

La nuova Amministrazione Usa, per bocca del funzionario addetto all’immigrazione Tom Homan, si è sentita in dovere di chiedere al Papa di starsene zitto. Dovrebbe «concentrarsi sulla Chiesa cattolica e lasciare che ci occupiamo noi dei confini (…). Ha un muro attorno al Vaticano, giusto? (…) E noi non possiamo avere un muro attorno agli Stati Uniti?». Come se fosse stato Papa Francesco a farlo costruire l’altro ieri e non Leone IV, quasi 1200 anni fa, per proteggere la Curia romana dalle scorrerie dei saraceni.

Si potrebbe obiettare che, per quanto ignoranti, quelle di Tom Homan siano solo battute. Vero, se non ci fosse di mezzo il futuro dell’umanità ormai divisa tra gli «yes men» del nuovo bombastico corso delle cose e il piccolo resto di braccia e cervelli che ancora sognano un’inversione di rotta. Scommettendo, controvento, sulla forza trasformatrice della speranza.