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Scintillare di verde smeraldo

/ 10/02/2025
Carlo Silini

Lugano centro, lunedì scorso verso mezzogiorno. In un posteggio lungo via Bossi qualcuno ha lasciato una berlina azzurro acquamarina. Spicca come un fiore fra le molte altre vetture della zona. Un recente podcast di France Culture conferma quest’impressione: oggi tre veicoli su quattro sono bianchi, grigi o neri, nel 1952 erano rossi, verdi o blu. Cosa è successo nel frattempo?

Negli ultimi decenni anche le pareti interne delle case e degli appartamenti si sono progressivamente decolorate. Negli anni Sessanta e Settanta erano foderate con carta da parati a motivi geometrici o floreali. Negli anni Ottanta erano dipinte con tinte dal giallo oro al rosso mattone; color lavanda nei bagni. Oggi son tutte bianche. Anche nella moda di tutti i giorni indossiamo jeans e capi monocromi chiari o scuri, quasi sempre vestiti neri sopra scarpe sportive bianche. Se non vuoi sbagliare, meglio l’asciutta sobrietà di un outfit senza eccessi. E così, piano piano, dalle auto ai maglioni, dall’oggettistica in cucina o in ufficio alle pareti del salotto, è passata l’idea che i colori sbraghino la tua immagine; che, sotto sotto, siano volgari. Solo i bambini possono permetterseli.

Per chi è cresciuto negli anni della psichedelia caciarona e allegramente kitsch, la consapevolezza di invecchiare dentro un mondo in bianco e nero è un po’ deprimente. Dove sono finiti i colori, in quest’epoca tristanzuola di pandemie, guerre e crisi economiche?

Nei loghi, per cominciare. In un mondo omologato attorno alla media cromatica tra nero e bianco, nel grigio del cemento e del metallo, i colori vivaci sono una prerogativa dei marchi di successo, che spiccano come semafori sopra i toni asfalto della giungla urbana. Le pubblicità imitano i maschi del pavone, che seducono la potenziale clientela sfoggiando piume arcobaleno. La merce è l’esca colorata del nuovo millennio, il marketing dei colori delle confezioni e la sua presa sulla psiche delle masse è la scienza che domina i quartieri generali delle grandi aziende.

Se vuoi distinguerti, per far soldi o per opporti all’andazzo generale, ti colori. L’arcobaleno è il simbolo della diversità rivendicata come un diritto nel mondo della «normalità». Sta nelle bandiere LGBTQ, nei look degli artisti e delle folle danzanti delle Street Parade.

Per tutti gli altri il colore è sparito dal mondo reale ed è finito in forze nell’universo virtuale dei videogiochi, che sono una sbornia cromatica, e nelle tinte stupefacenti degli schermi dei computer e dei telefonini. Vestiti di grigio nel mondo grigio, ci tuffiamo a capo chino nella policromia in scatola degli smartphone, compulsando video, post e reel ubriacanti.

Di fatto abbiamo relegato il colore dentro un mondo parallelo che è soprattutto quello del tempo libero, del relax e del divertimento, in opposizione al tempo «occupato» degli impegni quotidiani. In altre parole, c’è il tempo obbligato delle «cose serie» di tutti i giorni ed è incolore. E c’è il tempo rubato delle «cose leggere»: gli ambienti di svago online, le vacanze al mare in infradito arancio e camicia hawaiana, le corse nel bosco in tuta aderente fluo, il Capodanno e il carnevale (in arrivo) coi faccioni di cartapesta, le Guggen e i coriandoli ed è coloratissimo.

Viviamo drammaticamente scissi tra il mondo monocromo dei doveri e quello policromo dei piaceri. Fossimo capaci di ispirarci alla natura – che concede al bianco e nero una stagione su quattro: l’inverno – riempiendo di colori e contentezza la quotidianità e la routine, forse anche le nostre pareti, i nostri vestiti e i nostri umori scintillerebbero senza vergogna di rosso ferrarese e verde smeraldo.