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Un progetto sempre meno allettante, vediamo perché

Un dato messo in evidenza dal Consiglio federale, nel comunicare le sue intenzioni per il futuro, è stato il calo delle adozioni internazionali nell’ultimo decennio. «In Svizzera siamo passati dalle 275 adozioni del 2008 alle 30 del 2023; a livello ticinese, dai 24 minori giunti nel 2008 ai 7 del 2023 (6 nello scorso anno)». A parlare Sabina Beffa, responsabile dell’Ufficio dell’aiuto e della protezione del Cantone. Tra i motivi che hanno scoraggiato la pratica troviamo: la Convenzione dell’Aja sulla protezione dei minori, entrata in vigore nel nostro Paese nel 2003, che ha gli obiettivi di «stabilire delle garanzie affinché le adozioni internazionali si facciano nell’interesse del minore e per impedire la vendita, la tratta di minori» e di «instaurare un sistema di cooperazione fra gli Stati contraenti al fine di assicurare il rispetto di queste garanzie». Sono dunque cresciute l’attenzione nei confronti delle procedure e la pressione affinché si svolgano in maniera corretta, osserva Beffa. Inoltre molti Paesi di origine hanno iniziato a privilegiare soluzioni «interne», come previsto dalla Convenzione, con la conseguente significativa diminuzione del numero dei bambini adottabili. L’intervistata elenca altri elementi che hanno favorito la tendenza: l’instabilità nei Paesi di origine e i blocchi dovuti al Covid. La maggior parte degli aspiranti genitori desidera inoltre adottare un minore nei primi anni di vita e in buona salute, ma ciò non corrisponde alle esigenze reali: numerosi Paesi propongono bambini più grandi e con «bisogni speciali».

Da considerare anche i costi non indifferenti dell’adozione internazionale: in Ticino 850 franchi per l’apertura del dossier e la valutazione di idoneità, oltre a diverse migliaia di franchi per i corsi pre-adozione, per la traduzione dei documenti, per le prestazioni degli intermediari e la stesura del dossier da inviare al Paese di origine, per i viaggi e le permanenze ecc. Senza dimenticare le difficoltà della procedura, i tempi lunghi e il rischio che si concluda con un nulla di fatto. «Il percorso di valutazione di idoneità dei candidati dura 6 mesi circa», afferma Beffa. «Dopodiché bisogna preparare il dossier da presentare al Paese d’origine e possono passare dai 3 ai 5 anni per l’adozione». Qualche famiglia di nostra conoscenza ci ha parlato delle «lungaggini» dell’iter burocratico. L’esperta risponde: «Parliamo di un percorso introspettivo verso un progetto complesso che richiede tempo. I 6 mesi di valutazione da parte di operatori sociali e psicologi sono volti ad esplorare le varie dimensioni del progetto di adozione e l’idoneità della famiglia o del singolo candidato, mentre il focus resta il benessere del minore che vale sopra ogni cosa. Le “lungaggini” burocratiche possono manifestarsi nei rapporti col Paese di origine. Ci sono realtà, come la Colombia, che chiedono pure l’albero genealogico... E la fase di attesa, dopo l’invio del dossier, è un buco nero. Non si sa come il Paese di origine valuta le candidature, che non arrivano solo dalla Svizzera».

Per adottare, da noi, bisogna rivolgersi ad associazioni che fanno da intermediarie. Sono 5 ad essere attive (più una che si occupa di adozioni nazionali), due hanno sede in Ticino. «Ma – spiega Beffa – Chaba Adozioni (Locarno) chiuderà i battenti e ora segue solo i casi già aperti. Sono infatti sempre meno i bimbi che arrivano dalla Thailandia, Nazione di cui si occupa». Mani per l’infanzia (Dino) opera in Burkina Faso, Repubblica Dominicana, Perù. Non accetta nuovi dossier per Haiti (instabilità politica) e per la Costa d’Avorio (è in prova). Restano il Bureau genevois d’adoption (Ginevra), per bambini che arrivano dalle Filippine e dalla Thailandia, che non accetta nuovi dossier; la Fondation enfants-espoir (Berna), che si concentra sull’India, e Stiftung Ouvre tes mains / SOS Adoption (Grolley) sulla Thailandia. Non vi sono adozioni dall’Italia. «La vicina Penisola – come qualsiasi Nazione dell’Europa occidentale – punta sull’adozione nazionale (in Svizzera è poco diffusa, si predilige l’affido)». Ultima nota: nel nostro Paese possono adottare anche single e coppie gay, basta avere una differenza d’età di almeno 16 anni e al massimo 45 dal minore, ma «sono pochi i Paesi che accettano queste tipologie di candidati».


Una vera gioia che va oltre i pregiudizi

La storia di Saïdou e della famiglia ticinese che lo ha accolto mentre Berna punta a vietare le adozioni internazionali
/ 03/02/2025
Romina Borla

Il Consiglio federale intende vietare le adozioni internazionali, lo ha fatto sapere mercoledì scorso, specificando che ha incaricato il Dipartimento federale di giustizia e polizia di elaborare, al più tardi entro la fine del 2026, un progetto di legge in tal senso da porre in consultazione. Il motivo principale? «Anche un diritto in materia di adozioni severo non può escludere il rischio di abusi», si legge sul portale del Governo elvetico. «Il divieto è il miglior modo per tutelare in modo adeguato tutte le persone interessate, in particolare i bambini». Mentre qualcuno sottolinea il rischio di spostare il problema altrove (leggi traffici sempre più illeciti e maternità surrogata, vietata nella Confederazione ma consentita altrove) e nell’attesa che il progetto prenda forma, abbiamo incontrato Renata, residente nel Locarnese, mamma biologica di Enea Xan e adottiva di Saïdou Elia. Mamma e basta, direbbe lei.

È consapevole delle irregolarità nell’ambito delle adozioni internazionali che, soprattutto tra gli anni Settanta e gli anni Novanta del Novecento, sono state perpetrate da individui senza scrupoli allo scopo di guadagnare sulle spalle di bambini che già soffrivano. Conosce appunto il lungo percorso dell’adozione, non privo di prove a volte dure (le ha raccontate in un libro intitolato Riigma che in lingua moré significa abbraccio). Ma vuole sottolineare, con grande energia, la positività di un’esperienza che arricchisce la vita: della famiglia che accoglie e del minore.

«Lo voglio ripetere più e più volte, per noi tre è una gioia», esordisce. «Mi sono spesso scontrata con visioni negative e pregiudizi: una parte della società giudica male l’adozione. Certo, le sfide non sono mancate. Soprattutto durante il percorso che ha portato all’arrivo di Saïdou. Ma lui è una gioia e un’opportunità di crescita, nonostante abbia un passato complesso alle spalle con cui deve e dobbiamo fare i conti. Siamo stufi della mancanza di sensibilità di alcune persone, che pongono domande indiscrete e fanno affermazioni infelici: “Poverino, avrà una vita difficile!”, “Conosco un’amica che ha adottato, ma il ragazzo le dà tanti problemi”, o “Avevate già un figlio vostro, perché buttarsi in una simile impresa?”. Dimostrano scarsissima empatia per una situazione in fondo così normale: accogliere chi ha bisogno, offrire una possibilità a chi non ce l’ha e se la merita, darsi la possibilità di sperimentare un amore più grande».

Come è nata l’idea dell’adozione? «Avevamo già un figlio nostro – racconta Renata – però non ci mancava la volontà di allargare la famiglia, aiutando nel contempo un bambino in difficoltà. Mio marito Oliver viene dal Canton Zurigo, dove viveva accanto a una struttura per ragazzi soli. Sapevamo bene quanta tristezza porta l’assenza di una famiglia vicino…». Inoltre la coppia ha sempre coltivato una profonda ammirazione per l’Africa, viaggiando in Zimbabwe, Namibia ecc. Lei si era anche trasferita per un periodo a Cape Town. Per questo – quando è arrivato il momento – non hanno avuto dubbi, puntando sull’adozione di un bambino del Burkina Faso. «Nel 2016 abbiamo inoltrato la richiesta al Cantone; nel 2019 l’associazione Mani per l’Infanzia – persone stupende – ci ha contattati per informarci dell’abbinamento: il bimbo era Saïdou!». Quegli anni di attesa, dice Renata, sono stati caratterizzati dalla speranza, dall’ansia, dalla paura, dai corsi pre-adozione, da allegria e delusioni (come la perdita di documenti sia in Africa sia in Svizzera). «La nostra grande fortuna, in fondo, è stata che avevamo già un figlio, Enea, che ci ha supportati in tutto e per tutto».

Nel 2020 è arrivata «la telefonata»: Mani per l’Infanzia ha informato la famiglia che il tribunale del Burkina Faso aveva dato il suo consenso e che i documenti erano pronti. La partenza era prevista sabato 5 dicembre 2020 da Ginevra – durante la pandemia – e il soggiorno nel Paese doveva durare due settimane ma, data l’instabilità politica nella regione, era consigliato rientrare in Svizzera il prima possibile. Renata si emoziona pensando al primo incontro con Saïdou: «Doveva avere 4-5 anni ma sembrava più piccolo della sua età. Era magrissimo, pesava appena 9 chili, e aveva evidenti tagli e bruciature sul corpo. Non aveva nessuno. Viveva in una “casa famiglia” a Koudougou: una capanna spoglia insieme a due persone con quattro figli. Due persone che non erano per niente gentili con lui...». È stato amore a prima vista. Sembrava che il piccolo volesse partire, si è affidato senza riserve alla sua nuova famiglia che veniva da lontano: meglio l’ignoto rispetto all’inferno che conosceva. «Durante i corsi obbligatori per l’adozione – utilissimi – ci avevano spiegato le probabili dinamiche dell’incontro, ci avevano detto della possibilità che non ci accettasse, che piangesse, che reagisse con aggressività per via del suo passato. La realtà per noi è stata diversa: bella e naturale. In Burkina Faso una signora ci ha chiesto che altro nome volevamo dargli… Non è mai stata un’opzione per noi, il suo nome era Saïdou e quello restava. È parte della sua storia, una delle poche cose che gli rimangono del suo passato».

L’arrivo in Svizzera è stato caratterizzato da momenti divertenti, ricorda Renata: Saïdou continuava ad accendere e spegnere la luce, ridendo a crepapelle, oppure ad azionare lo sciacquone del water. «È andato tutto molto bene! Certo, sapevamo che si trattava di un bimbo con un passato non idilliaco alle spalle. I segni erano evidenti e non sono del tutto scomparsi. Ad esempio all’inizio mangiava troppo, fino a stare male. Avendo sofferto la fame non si poneva limiti e poi nascondeva il cibo nell’armadio o, alla scuola dell’infanzia, non capiva perché le pietanze avanzate venivano buttate… Quando si rompeva qualcosa si accovacciava a terra, proteggendosi la testa con le manine. Ancora adesso se qualcuno alza la voce si blocca per la paura. Ha timore soprattutto degli uomini».

Ma le note positive superano di gran lunga le preoccupazioni. «Mi chiama mamma, adora suo fratello, ha tanti amici, è un gran chiacchierone. Dispone di un lessico fantastico. Si è integrato in classe. La scuola ticinese si è aperta alle diversità, come tante persone. Rimangono dei pregiudizi, specie tra le vecchie generazioni, e talvolta sento frasi quali: “I neri non si affermano nelle professioni prestigiose”, “Che futuro avrà?”. Siamo consapevoli che Saïdou dovrà confrontarsi anche con questo, cerchiamo di prepararlo, di dargli gli strumenti giusti per rispondere». Intanto lui dimostra la sua forza di volontà, ci mette tutta l’energia possibile per imparare, partecipa, corre, desidera essere come gli altri, sembra voler approfittare al massimo delle possibilità che in Africa non aveva. «Gli raccontiamo delle sue origini e, se un giorno vorrà, potrà ritornare… Lo aiuteremo a trovare la sua strada, come facciamo con Enea. I nostri figli devono sapere di essere amati e liberi di decidere come orientare la loro vita».

Trovate Riigma (2024) nelle librerie ticinesi e online (www.fontanaedizioni.ch). Parte del ricavato della vendita del volume servirà a sostenere la formazione professionale dei ragazzi e delle ragazze residenti nell’orfanotrofio di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso.