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Un passaggio di egemonia combattuto

Le novità del secondo mandato di Donald Trump in quattro punti
/ 06/01/2025
Lucio Caracciolo

Il secondo avvento di Donald Trump alla Casa Bianca, fissato per il prossimo 20 gennaio, segna un passaggio d’epoca nella storia americana. E per conseguenza mondiale, stante il rango di Numero Uno che gli Stati Uniti serbano malgrado la crisi di identità che li sconvolge.

Non tutti i cambi della guardia alla presidenza americana hanno un simile rilievo. Anzi, per la maggior parte non l’hanno affatto. Perché le linee di continuità e le inerzie istituzionali prevalgono di norma sulle novità strutturali, condizionano e limitano i mutamenti di rotta. Come tutte le potenze di dimensioni straordinarie, anche quella a stelle e strisce abbisogna del suo tempo per correggere di qualche grado la direzione di marcia. Che cosa dunque marca la novità del Trump 2? Per punti.

Primo. Siamo in piena fase di transizione egemonica su scala planetaria. Quei passaggi d’epoca che vertono sul cambio di testimone fra potenze dominanti. L’ultimo intervenne tra le due guerre mondiali, quando gli Stati Uniti presero la guida del pianeta sulle orme dei cugini britannici, rivali da cui si emanciparono a fine Settecento ma di cui le élite conservano tuttora alcuni caratteri culturali (non solo la lingua) e geopolitici (la configurazione marittima del loro informale impero). La precedente transizione avvenne al costo di stragi immani, di cui noi europei (e gli asiatici) fummo le vittime principali. Ora la guerra in Ucraina e quella attorno a Israele lasciano intendere che anche questo cambio della guardia non potrà essere pacifico. La questione è se i conflitti in corso confluiranno nella terza guerra mondiale, che rischierebbe di svelarsi definitiva per noi umani, oppure se ci fermeremo sulla soglia dell’autodistruzione. Siamo in tempo, ma occorre invertire il senso di marcia delle principali potenze in competizione – Stati Uniti, Cina, Russia – prima che il piano inclinato non ci faccia scivolare nell’apocalisse.

Secondo. La crisi americana è anzitutto interna. Verte sul senso della nazione e sulla sostenibilità di un’egemonia che dal 1990 si voleva globale ma che l’ultimo trentennio ha svelato troppo costosa e rischiosa per chi aspirava a affermarla. Fra le sue due facce – la repubblica e l’impero – l’élite americana scopre una contraddizione. Anzi, una frattura forse insanabile. La globalizzazione intesa come affermazione planetaria del sistema americano vertente sulla strapotenza militare, l’esorbitante privilegio del dollaro e il soft power che dovrebbe indurre gli altri ad aderire all’American way of life è equazione troppo complessa per volgersi in realtà. Il fallimento della cosiddetta guerra al terrorismo, sancito dal disastroso ritiro dall’Afghanistan voluto da Biden nel 2021, ne è stata l’estrema riprova. Di qui l’idea trumpiana di ridurre l’esposizione della superpotenza nel mondo, l’accento sulle intese (deals) pragmatiche con avversari ma anche alleati renitenti, a testimoniare del tentativo di trovare una soluzione radicale al problema.

In questo contesto, parlare ancora di alleanze o di blocchi, come al tempo della guerra fredda, indica trovarsi completamente fuori tempo. Basti considerare come diversi paesi Nato abbiano assunto e mantengano posizioni diverse nella guerra di Ucraina.

Terzo. Gli americani si chiedono, echeggiando il titolo di un fortunato saggio di Sam Huntington: «Chi siamo?». La rivolta della classe medio-bassa e dei colletti blu vittime della globalizzazione – ossia di delocalizzazione, deindustrializzazione e compressione salariale – segue una tendenza che porterà entro la metà del secolo alla riduzione in minoranza del ceppo bianco. Nel 1990 il 76% degli americani si classificava bianco. Nel 2023 quella maggioranza era crollata al 58% e continua a diminuire, anno dopo anno. Finché nel 2045 si prevede che i bianchi – ovvero gli anglo-germanici in maggioranza evangelici – finiranno sotto la soglia maggioritaria, fino a ridursi a ceppo fra gli altri. E ciò in tutti e 50 gli Stati federati.

Di qui la centralità della politica migratoria nel dibattito pubblico americano. Dove è già emersa una divisione fra Trump e il suo partner e finanziatore Elon Musk, che certo non intende ridursi a portatore d’acqua del presidente. Mentre la base trumpiana radicale si oppone ai flussi migratori – anche nel caso di persone molto qualificate – in nome dell’omogeneità etno-culturale della nazione o di quel che ne rimane, il capo di SpaceX sostiene che i più meritevoli devono poter immigrare e diventare americani. Pensando evidentemente a sé stesso.

Quarto. Le differenze sulla politica migratoria lasciano intendere che almeno in questa prima fase il principale rivale di Trump sarà Musk. Per restare alla coppia repubblica/impero, il primo mette l’accento sulla prima, l’altro sul secondo. Il presidente prefigura un arrocco nel perimetro nordamericano. Le sue sparate sull’annessione di Canada e Groenlandia e sul recupero del Canale di Panama sotto lo zio Sam disegnano questa visione. La sua vocazione protezionistica è la faccia economica della medesima postura.

Musk è un imprenditore visionario che vede nella conquista dello Spazio la prima priorità dell’America. Nientemeno che una Nuova Frontiera. Cosmica. Marte è l’obiettivo proclamato. Il presidio delle orbite basse attraverso i suoi satelliti l’obiettivo operativo, immediato.

Questi quattro punti dovrebbero avvertirci: il passaggio di egemonia sarà combattuto. Anche perché nessuno sembra ancora in grado di prendere il posto dell’America.