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La parola che non abbiamo trovato

/ 09/12/2024
Carlo Silini

A volte la realtà è più veloce del dizionario. Succedono cose per le quali non esistono ancora parole adatte a descriverle. Parlo per diretta frustrazione, sperimentata nel fortunato gremio di chi seleziona ogni anno, a poche settimane dal Natale, la parola svizzera dell’anno in lingua italiana. Per il 2024 abbiamo scelto «non binario» al primo posto, «allerta-meteo» al secondo e «nomofobia» al terzo.

Prima di spiegare la terna vincente, torno al concetto di partenza. Quest’anno, più ancora dei precedenti, è stato segnato dalla guerra e dalle sue nuove declinazioni. Ancora pochi giorni fa si è riaperta la ferita della guerra civile siriana con l’invasione jihadista di Aleppo e per qualche momento abbiamo addirittura sentito parlare di legge marziale in Corea del Sud. Eravamo tutti d’accordo, in giuria, che il tenore del 2024 è stato ininterrottamente bellico e che la realtà della guerra ha dominato prepotentemente l’intero arco dell’anno. Ma la parola che ci mancava, quella che non siamo riusciti a mettere in cima alla classifica che poi abbiamo proposto non esisteva. La guerra, infatti, non è una novità del 2024, c’è da sempre, fa parte di quella quota costante del male di vivere che abbruttisce il mondo.

Di nuovo, rispetto alla guerra, allora cosa c’è stato? L’assenza di un tentativo serio e credibile di cercare la pace. A parte la volonterosa ma inefficace conferenza del Bürgenstock sull’Ucraina, nel canton Nidvaldo, né l’ONU né i «padroni del vapore» internazionali (leggi America e Cina) hanno osato o voluto imporre la via diplomatica. Solo il Papa, vox clamantis in deserto, è andato avanti a proporla, anzi a implorarla, fra il gelo dei contendenti e la distanza siderale delle grandi potenze.

Possibile che in un anno nessuno sia riuscito a imporre non dico la pace, ma un robusto tentativo di raggiungerla? La parola giusta del 2024 che ci voleva ma ancora non c’è doveva esprimere proprio questo sprezzo, questa colpevole dimenticanza, questa mancanza di volontà nel ricomporre o quanto meno arginare i conflitti per via diplomatica. Nemmeno il vocabolo «antidiplomazia», che esiste ma è scarsamente diffuso, riesce a esprimere il grumo di sfiducia e disinteresse per la più alta e nobile forma di politica che conosciamo, la diplomazia appunto, sparita perfino dai radar della coscienza civile. La pace? Aspettiamo Trump o la Harris e vediamo come si mette, si sono detti tutti per mesi e mesi. Che è come dire: 1. aspettiamo, cioè non c’è urgenza di intervenire; 2. e aspettiamo la legge del più forte, non la legge del miglior bene (o del minor danno) possibile che regge la logica delle negoziazioni.

È un andazzo talmente pervasivo, quello di pensare che non ci possa essere una via non missilistica, bombarola o comunque violenta verso la fine delle guerre, che siamo rimasti orfani di una parola per esprimerlo.

È anche per questo che alla fine si è ripiegato su «non binario», un’espressione che a un primo livello di lettura – grazie alla vittoria dell’elvetico Nemo all’Eurovision Song Contest – fa riferimento alla scoperta o riscoperta in Svizzera della possibilità per una persona di non identificarsi strettamente o del tutto nel genere femminile o maschile. E a un secondo livello a un’altra ancora più intrigante possibilità mentale: quella di non pensare in modo binario, bianco o nero, vero o falso, amico o nemico, senza sfumature. Che è poi il modo di ragionare degli estremisti e dei fautori di ogni guerra.

Di «allerta-meteo» coi tempi che corrono c’è poco da dire, è un’àncora di salvezza se attivata in tempo utile. «Nomofobia», invece, designa la paura incontrollata di rimanere sconnessi dalla rete di telefonia mobile. In questo caso il vocabolario ha camminato veloce, trovando un termine del tutto al passo con la bruciante realtà dei fatti.