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Negoziati Svizzera-Ue: lo sprint finale
Restano insidiosi nodi da sciogliere, primo fra tutti quello legato all’accordo sulla libera circolazione delle persone
Roberto Porta
Ci siamo, quasi. O forse no. I negoziati tra Svizzera e Unione europea per la definizione delle relazioni bilaterali del futuro sono giunti in dirittura d’arrivo. Per quanto riguarda la tempistica sembra esserci un obiettivo condiviso: riuscire a firmare questi nuovi accordi entro la fine dell’anno in corso. E c’è persino l’ipotesi di una data, il 18 dicembre, giorno in cui le due presidenti, Viola Amherd e Ursula von der Leyen, potrebbero apporre il loro sigillo a questa nuova intesa. «Dopo più di 120 incontri a livello tecnico, siamo arrivati all’ultimo miglio», ha fatto notare di recente Maros Sefcovic, il commissario europeo responsabile delle relazioni con il nostro Paese. Ma il problema sta proprio in questo ultimo miglio, che appare, se possibile, ancor più insidioso di quanto non lo siano state le trattative fin qui condotte tra Berna e Bruxelles. Al tal punto che, sul fronte interno, manca persino una definizione, o un titolo, capaci di fare l’unanimità per qualificare questi nuovi accordi. Insomma non si sa nemmeno come chiamarli.
Il Consiglio federale utilizza l’espressione «approccio a pacchetto», per dire, in burocratese stretto, che le trattative in corso portano su un ventaglio di tematiche e che al centro di questi negoziati non ci sono soltanto le questioni istituzionali, una delle zavorre che aveva fatto colare a picco il cosiddetto «accordo quadro», naufragato ormai tre anni e mezzo fa per volere dello stesso Consiglio federale. Non per nulla i negoziati sono stati estesi anche ad ambiti finora esclusi dai bilaterali, come ad esempio il settore dell’energia, della sanità pubblica e della sicurezza alimentare. Un «pacchetto» che prevede anche il ritorno a pieno titolo del nostro Paese nei programmi con cui l’Ue dà forma alla propria ricerca scientifica. Ambiti in cui la Svizzera ha interesse, sempre secondo il Governo, a muoversi in sintonia con l’Unione per poter accedere in modo agevolato al mercato unico europeo. L’accordo in ambito energetico, ad esempio, è visto da più parti come una sorta di assicurazione per evitare il rischio di black out elettrici in terra elvetica. L’UDC, invece, usa ad ogni piè sospinto l’espressione «accordo coloniale», per i contenuti istituzionali che esso porta con sé, con la Svizzera che a detta dei democentristi si dovrà sempre adeguare alla legislazione europea, con il rischio di subire delle ritorsioni se dovesse decidere di non farlo. L’aggettivo «coloniale» piace molto ai democentristi, del resto lo avevano già utilizzato nel 1992, quando l’UDC riuscì ad affossare l’adesione allo Spazio economico europeo.
Il mondo sindacale, tuttora contrario a questi nuovi accordi, non fa uso di una definizione precisa, a suo dire si tratta di un patto che al momento tiene conto soprattutto degli interessi della grande industria esportatrice. Con il rischio di dover indebolire le condizioni di lavoro in Svizzera. Coloro, infine, che vedono di buon occhio queste trattative, puntano sull’espressione «accordi di stabilizzazione». Si tratta infatti di consolidare la via bilaterale, iniziata ormai 25 anni fa. Non per nulla proprio questo fronte utilizza volentieri anche l’espressione «Bilaterali 3», da intendere come una versione rivista e ampliata rispetto agli accordi tuttora in vigore. Una posizione simile a quella del Consiglio federale. Governo che il prossimo mercoledì, 6 novembre, ha previsto una riunione ad hoc per stilare un bilancio dei negoziati in corso e per capire se si possa davvero mettere mano a penna e calamaio per firmare questi accordi. Dai nostri ministri al momento trapela poco o nulla. Pochi giorni fa la presidente della Confederazione Viola Amherd, davanti alla stampa estera a Berna, si era espressa in termini positivi. «Personalmente sono ottimista», ha affermato la ministra vallesana, anche se restano ancora dei nodi cruciali da sciogliere.
Primo fra tutti quello legato all’accordo sulla libera circolazione delle persone, e all’arrivo in Svizzera di forza lavoro europea. Politicamente è uno dei dossier più incandescenti, lo è di fatto da almeno 25 anni, anche perché stretto a tenaglia dall’opposizione di UDC e sindacati. Una sorta di vicolo cieco. Per uscirne, in questi ultimi mesi è stata ventilata l’ipotesi di una clausola di salvaguardia, un freno che il nostro Paese potrebbe far scattare a partire da una determinata soglia di immigrati europei. Facile a dirsi, ma molto complicato a farsi, anche perché si tratta di creare delle eccezioni alla libera circolazione delle persone, principio che l’Ue considera uno dei pilastri centrali della propria impalcatura comunitaria.
Su questo punto la rivendicazione svizzera è «un passo di troppo», come ha già fatto notare la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Per Viola Amherd ci potrebbe essere uno spiraglio, nel tentativo di cesellare una versione «svizzero-compatibile» della libera circolazione. E qui va ricordato che all’articolo 14 dell’accordo sulla libera circolazione è previsto che «in caso di gravi difficoltà di ordine economico o sociale» una delle due parti contraenti può chiedere di «esaminare le misure adeguate per porre rimedio alla situazione». Un articolo su cui il Consiglio federale non ha mai voluto far leva in tutti questi anni e che richiama il principio stesso della clausola di salvaguardia. Ma al di là dei negoziati in corso, il Governo è chiamato a dire la sua anche su un altro tema scottante, e qui si tratta di un tema di politica interna. L’interrogativo riguarda il futuro verdetto delle urne. Per avvallare definitivamente questi nuovi accordi ci vorrà la doppia maggioranza di Popolo e Cantoni o basterà la maggioranza semplice dei cittadini? Argomento divisivo, a tal punto che è stata anche lanciata un’iniziativa popolare, chiamata Bussola, che mira a introdurre l’obbligo del referendum obbligatorio, e quindi della doppia maggioranza, quando si tratta di decidere il destino di trattati internazionali.
In ogni caso le prossime settimane ci diranno se il Governo sarà davvero in grado di trovare le risposte necessarie per giungere ad una firma di questi accordi. La pressione è davvero alta, in particolare su Ignazio Cassis. Il nostro ministro degli esteri è in carica dal 2017, sette anni in cui sul fronte europeo si è finora concretizzato ben poco. Un primo tentativo, quello dell’accordo istituzionale, era andato a vuoto tre anni fa. Ora siamo agli esami di riparazione, che ci diranno se sulla pagella europea del ministro ticinese ci sarà una nota perlomeno sufficiente.