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«Repubbliche sorelle» non sempre allineate

Fu il bernese Vautravers a usare per la prima volta l’espressione «Sister Republics» accostando Svizzera e Stati Uniti che condividevano un medesimo pensiero filosofico e politico. I due Stati hanno poi sviluppato un rapporto non certo alla pari...
/ 28/10/2024
Roberto Porta

L’incipit questa volta lo affidiamo ad un testo che ha fatto la storia, e che ci arriva dalla costa est degli Stati Uniti (che a breve sceglieranno il/la loro nuovo/a presidente, leggi articolo a pag. 17). «Noi riteniamo che sono per loro stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la vita, la libertà, e il perseguimento della felicità». Questo è uno dei passaggi iniziali della Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, il testo che ha portato alla nascita di quel Paese, era il 4 luglio del 1776. Parole scritte dalla cosiddetta «Commissione dei cinque», composta dai padri fondatori degli Stati Uniti. Tra loro c’era anche Benjamin Franklin, una delle figure più illuminate di quel periodo storico, perlomeno dall’altra parte dell’Oceano Atlantico. Fu proprio Franklin a ricevere, qualche tempo dopo quello storico 4 luglio, una lettera da uno studioso ed erudito bernese, tale Jean-Rodolphe Vautravers. In quella missiva fu lo stesso Vautravers a usare per la prima volta l’espressione «Sister Republics», «Repubbliche sorelle», accostando in questo modo il cammino di questi due Paesi, gli Stati Uniti e la Confederazione elvetica di allora. Una definizione che nacque dalla condivisione di un medesimo pensiero filosofico e politico.

In quel periodo molti rivoluzionari americani si rifacevano anche alle idee di filosofi e politici svizzeri, personaggi di spicco dell’Illuminismo di casa nostra, come ad esempio il ginevrino Jean-Jacques Burlamaqui, un giurista e professore universitario, la cui fama non è però riuscita ad arrivare fino ai giorni nostri, messa in ombra da un altro Jean-Jacques che di cognome faceva Rousseau, il cui pensiero, basato su concetti simili, è invece ancora sulla breccia. D’altro canto non va dimenticato che in quel periodo c’era anche una «sorellanza» di natura religiosa, molti dei capifila della rivoluzione americana erano protestanti e avevano fatto propri i principi espressi da Calvino a Ginevra e da Zwingli a Zurigo. Tra noi e loro, tra la Svizzera di allora e gli Stati Uniti, nacque così questo stretto grado di parentela, che dura ormai da quasi 250 anni. Un sentirsi «sorelle» che tra corsi e ricorsi della Storia si concretizzò anche in terra elvetica quando nel 1848 prese forma il moderno Stato federale svizzero, così come lo conosciamo oggi.

Nel febbraio di quell’anno i Padri fondatori del nostro Paese si riunirono a Berna in quella che venne chiamata la «Commissione di revisione», per definire la prima Costituzione della Svizzera moderna. Essa ebbe anche il compito di forgiare le istituzioni che ancora oggi reggono il nostro Paese, e per farlo si ispirò in parte proprio al modello statunitense. Nacque così il sistema bicamerale, con il Consiglio nazionale e il Consiglio degli Stati, che ricalcano i meccanismi istituzionali della Camera dei rappresentanti e del Senato americani. Un Parlamento eletto dai cittadini e che opera anche nel rispetto dei principi federalisti che accomunano le due «Repubbliche sorelle». E questo con il sigillo dei principi liberali e illuministi che avevano portato alla nascita degli Stati Uniti e che in quel momento vengono per così dire «reimportati» in Svizzera, come ha scritto di recente lo storico Sacha Zala, in un articolo pubblicato dal periodico «Nzz Geschichte». Zala individua proprio nel 1848 il momento in cui l’espressione «Sisters Republic» prende definitivamente piede. «Da allora – scrive questo professore di storia all’università di Berna – politici e diplomatici non si stancano di rifarsi, quando l’occasione lo richiede, a questo rapporto di sorellanza tra le due Repubbliche».

Fin qui in grandi linee quanto ci dice la storia, se la guardiamo dai cancelletti di partenza, dagli albori di questi due Paesi. Due Stati che hanno poi sviluppato un rapporto non certo alla pari, con Washington che ha facilmente assunto il ruolo «di sorella maggiore». Basti guardare a quanto capitato dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi, con gli Stati Uniti che hanno più volte imposto al nostro Paese di piegarsi al loro volere. E spesso di mezzo c’erano questioni di natura finanziaria. La fine del segreto bancario elvetico è forse stato l’emblema principale di questo rapporto di forza, con gli Stati Uniti, e la comunità internazionale, che hanno imposto al nostro Paese di rendere trasparenti, perlomeno per i clienti stranieri, la gestione degli averi depositati nelle banche svizzere. E qui val la pena ricordare alcune espressioni usate dai parlamentari elvetici in occasione del dibattito sul cosiddetto «accordo Facta», la legge americana che prescrivere l’invio, anche dalla Svizzera, di informazioni bancarie alle autorità fiscali degli Stati Uniti. Era il 2014 e a Berna, in Parlamento, si erano sentite frasi di questo tipo «Dobbiamo ingoiare questo rospo», «Non abbiamo scelta, possiamo solo scegliere tra la peste e il colera». Era la fine del segreto bancario, la «sorella maggiore» aveva imposto la sua legge. Da allora quasi nessuno nel nostro Paese ha osato far notare a Washington che alcuni Stati a stelle e strisce – come il Delaware o il Nevada – sono tuttora dei paradisi fiscali, tra i maggiori al mondo.

Il potere statunitense si fece sentire anche sulla questione degli averi ebraici depositati nei forzieri svizzeri durante la Seconda guerra mondiale. Negli anni ’90 del secolo scorso, il Congresso ebraico mondiale ma anche le autorità USA, misero costantemente sotto pressione il nostro Paese e la sua piazza finanziaria, costringendo le banche elvetiche a stanziare 1,8 miliardi di franchi per regolare tutte le questioni legate ai fondi in giacenza. Una vicenda che portò la Svizzera a dover analizzare criticamente il ruolo avuto nel corso della Seconda guerra mondiale. Non tutto però è una questione di rapporti di forza, e qui val la pena ricordare che, dal punto di vista diplomatico, il nostro Paese rappresenta gli Stati Uniti in Iran e che un ruolo simile lo ha assunto fino al 2015 anche a Cuba. In altri termini quando Washington non riesce a dialogare con altri Stati, a volte chiama in causa la «sorellina elvetica». Un’ultima nota di natura commerciale, in questi ultimi anni gli scambi tra i due Paesi vanno a gonfie vele, a tal punto che gli Stati Uniti sono diventati nel 2023 il principale mercato di esportazioni di prodotti svizzeri all’estero. Con un punto dolente, come fa notare la Seco, la segretaria di Stato dell’economia: «Gli Stati Uniti sono il partner commerciale più importante con il quale la Svizzera non ha ancora concluso un accordo di libero scambio». Un’intesa a cui Berna anela da tempo ma che non si intravvede all’orizzonte, tra «sisters» può capitare di non vederla allo stesso modo…