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Cosa val la pena di non fotografare

/ 30/09/2024
Carlo Silini

Se dici ai ragazzi che quando eri adolescente dovevi concentrarti al massimo prima di scattare una fotografia, perché 1. con gli strumenti di allora – parlo delle macchine di battaglia, non certo di quelle professionali – non potevi vedere il risultato in anteprima; 2. i rullini consentivano un numero limitato di scatti e se sbagliavi l’inquadratura o la luce, quella era una foto da buttare, li vedi sorridere di traverso e scuotere la testa.

Veniamo da quel mondo arcaico lì noi padri/madri, zii/zie, nonni/nonne, e se non ci sentiamo del tutto obsoleti, rispetto alle potenzialità straordinarie delle tecnologie video-fotografiche offerte dal digitale, è forse solo per orgoglio, o per nostalgia dei tempi in cui ogni immagine che cercavamo di salvare dall’oblio richiedeva un minimo di perizia tecnica, fantasia e disciplina fotografica. E un album di cartone dove incollare le foto migliori.

Mica come oggi che fai diecimila scatti col telefonino, visto che potrai sempre salvare quelli venuti meglio e scartare gli altri. Se poi fanno tutti schifo esistono app che li trasformano, mettono luce dove manca, ombra se serve, allargano o restringono la visuale, raddrizzano orizzonti, eliminano deformazioni prospettiche, tolgono o aggiungono colori o elementi, sbiancano, opacizzano, rimodellano perfino i tratti somatici e le linee del corpo. Sicché, alla fine, non importa il colpo d’occhio, la bravura a inquadrare, l’uso sapiente delle fonti di luce. Non importa neppure l’aderenza dell’immagine alla realtà, ma la capacità di aggiustare a piacimento la realtà ai tuoi desideri estetici.

Ecco una prima significativa differenza tra le foto fai da te di un tempo e quelle di oggi: le prime erano istantanee del mondo reale, le seconde (spesso) rielaborazioni del reale al limite della falsificazione. Le prime frammenti nudi e crudi di verità e le seconde tentativi di abbellire l’attimo fuggente.

Lo strapotere della tecnica che, tramite un semplice telefonino, permette a chiunque di produrre e modificare immagini e video a getto continuo con la possibilità di condividerli in tempo reale con amici e nemici, di rovesciarli a cascata nel mare in burrasca dei social, è estremamente seducente e ci immerge in un ambiente virtuale fantastico, divertente, stimolante. Ma ha il suo lato oscuro.

La tendenza compulsiva a mettere in rete sé stessi, i propri amici, partner, figli nel gran teatro dei social, nasconde un certo narcisismo filosofico – «appaio dunque sono» – che comporta parecchi rischi, come spiega in questo stesso numero di Azione Alessandra Ostini Sutto. Il «sharenting», per esempio, ovvero la pubblicazione sistematica di immagini dei figli in rete che li espone non solo agli appetiti dei predatori sessuali che cercano i profili dei minori per contattarli, ma anche alla «sextortion» (estorsione sessuale), quando «bambini e adolescenti (o i loro genitori) vengono ricattati con immagini di nudo prodotte artificialmente, servendosi di informazioni accessibili sui social».

L’ubriacatura di foto e video più o meno intimi online non solo comporta i pericoli evocati, ma sfalsa il valore delle immagini. Per millenni l’uomo ha riservato la rappresentazione del mondo e delle idee agli ambiti più preziosi della propria esistenza: la natura, i riti di passaggio, la fecondità, il divino. I ritratti e gli autoritratti (i nostri selfie) erano rare rappresentazioni dell’anima e dei caratteri, più che dei corpi. E ci sono state fasi storiche di iconoclastia, ovvero di divieto delle immagini, riservate agli ambiti più sacri e ineffabili del vivere, come un velo di pudore per evitare di esporli a sguardi in grado di «sporcarli». Aborriamo i divieti, ma sarebbe bello e utile, oggi, recuperare un po’ di quel pudore nel regno furibondo delle immagini.