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Parlare di pace in tempo di guerra

Mentre le atrocità in Medio Oriente continuano, l’evento «It’s time» raduna israeliani e palestinesi che sognano un futuro diverso
/ 15/07/2024
Sarah Parenzo

Sono trascorsi più di nove mesi dal famigerato 7 ottobre, ma Israele e Hamas non sono ancora riusciti a partorire un accordo di cessate-il-fuoco che garantisca il ritorno degli ostaggi israeliani e, indirettamente, anche una tregua sul fronte nord dove la situazione si fa sempre più drammatica. In Israele si punta come sempre il dito contro Netanyahu, accusato di voler protrarre la guerra per rimandare la resa dei conti, magari sperando nella vittoria di Trump. Ma la realtà è che questo Governo di pericolosi estremisti e le sue politiche sembrano sempre in vantaggio, nonostante lo stato oggettivo di crisi in cui versa il Paese o, forse, grazie ad esso.

Così, mentre a Gaza continuano a morire civili innocenti, in Israele la riforma giudiziaria avanza, gli insediamenti nelle colonie si moltiplicano come mai prima d’ora, i soldati che tornano vivi si confrontano con trauma e mutilazioni, i contrasti tra sionisti e ultraortodossi si vanno intensificando intorno alla questione della leva obbligatoria, e gli israeliani che sognano una vacanza all’estero per prendere una pausa dall’inferno si vedono sempre più spesso respingere le prenotazioni. Il 7 luglio, poi, doveva essere una giornata chiave per le proteste, ma l’affluenza non è stata quella auspicata dai promotori, certamente non proporzionale al pericolo nel quale versa il Paese che sta assumendo le sembianze di una dittatura. Se gli orizzonti sono cupi, c’è tuttavia ancora posto per l’ottimismo. Lo confermano le oltre seimila persone – in prevalenza ebrei israeliani con una minoranza di palestinesi – che il primo luglio scorso si sono radunate all’Arena Menorah di Tel Aviv per prendere parte a una grande conferenza di pace dal titolo «It’s time», è il momento. Decine di organizzazioni per i diritti umani hanno aderito all’iniziativa promossa dall’imprenditore israeliano Maoz Inon e dal pacifista palestinese Aziz Abu Sarah che conducono insieme una campagna contro la vendetta che lo scorso maggio li ha portati ad incontrare anche il Papa. Inon è diventato attivista dopo che i suoi genitori sono stati trucidati da Hamas il 7 ottobre nel kibbutz Netiv HaAsara. Sul palco si sono alternati artisti, politici e intellettuali, oratori ebrei e palestinesi, laici e religiosi, parenti delle vittime di entrambe le parti e l’ex ostaggio Liat Arzieli, in quello che poteva sembrare un primo goffo tentativo di rianimare atmosfere in stile Oslo, come conferma la scelta della canzone Song for peace, l’ultima cantata da Rabin prima della sua morte.

Coraggiosa la richiesta di riavvio delle trattative, preziose le testimonianze di palestinesi del ’48 sulla politica israeliana di separazione geografica dei membri delle famiglie e confortanti le descrizioni della risoluzione pacifica di lunghi conflitti sanguinosi come nel caso del Sud Africa e dell’Irlanda del Nord. Molto toccante anche l’intervento di Ayman Odeh, leader del partito Hadash e della Lista Unita, uno dei soli quattro membri del Parlamento presenti. Ma nel complesso l’evento, trasmesso anche in diretta streaming, si è retto su slogan e messaggi ambigui e ben lontani da una soluzione politica concreta, benché gli organizzatori abbiano assicurato di starci lavorando. Nonostante la presenza di personalità note, come lo studioso Yuval Noah Arari, la cantante Achinoam Nini (Noa) e l’ex presidente della Knesset Avraham Burg, i giornalisti israeliani non hanno quasi degnato la serata di copertura, liquidandola nella migliore delle ipotesi con un trafiletto, a dimostrazione di quanto sia ancora estremamente impopolare parlare di pace in tempo di guerra. Sognare è lecito, ma l’assenza di Yair Golan, leader del nuovo gruppo democratico, recente prodotto della fusione dei partiti Avodà e Meretz, dimostra quanto il centro sinistra israeliano sia ancora lontano dal tradire la divisa militare. Come ha sottolineato Ayman Odeh nel suo discorso, infatti, il principale ostacolo alla fine dell’occupazione palestinese è proprio l’opinione pubblica israeliana, nonostante l’interesse per una vita in sicurezza dovrebbe essere reciproco.

Il buon funzionamento della democrazia gioca un ruolo nella regolazione degli impulsi più profondi e delle paure dell’individuo. In assenza di un regime democratico si registra dunque un aumento degli impulsi distruttivi e vendicativi, e delle tendenze tiranniche. Per tale ragione lo psichiatra, psicoanalista e ricercatore israeliano Eran Rolnik ha sottolineato l’importanza terapeutica a livello individuale della partecipazione alle proteste contro il Governo. In un’ottica simile, potremmo affermare che l’aspetto più riuscito dell’incontro «It’s time» è stato proprio l’effetto terapeutico sortito sui partecipanti. Migliaia di persone hanno ripetuto come un mantra nel corso di tre ore di desiderare una soluzione politica e una partnership, di voler vivere insieme in pace, uguaglianza e giustizia. Hanno cantato, danzato e soprattutto pianto di commozione, purificandosi finalmente dalle tossine di uno spazio pubblico nel quale da troppo tempo si respirano solo tensione, paura e aggressività, un clima dove l’occupazione, l’assedio e i crimini di guerra non vengono neppure menzionati dai principali media. Non si tratta di buoni o cattivi, semplicemente vivere costantemente in dissonanza rispetto alle persone che ti circondano comporta un prezzo non indifferente a carico del sistema nervoso. Per rimanere umani nell’Israele di oggi bisognerebbe poter usufruire di una terapia di gruppo come questa, almeno una volta al mese.