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Valli, disgrazie e ideologia climatica

/ 08/07/2024
Carlo Silini

Non l’avessero già fatto altri, saremmo noi, oggi, a irridere quel politico che, la notte prima della sciagura in Vallemaggia, si scagliava contro MeteoSvizzera che, «nell’ambito del suo lavaggio del cervello climatista (vedi il continuo mantra del “surriscaldamento climatico provocato dall’uomo”) si serve pure di allarmi farlocchi». È stato sufficientemente punito dal Karma istantaneo quindi non infieriremo su di lui. Ma il giorno dopo quella gaffe, un amico mi invia il link a un bell’articolo del «Corriere del Ticino» nel quale si spiega che a Cevio le catastrofi naturali ci sono da sempre, commentando: «Nulla a che vedere con i cambiamenti climatici tanto decantati dai verdi ecologisti e sinistroidi di ogni specie... È solo la natura stessa che si manifesta. Punto e basta». Gli voglio bene, ma non gli rispondo privatamente. Lo faccio qui, con ferma delicatezza, per lui e per quelli che la pensano come lui.

Anzitutto, prima dei militanti politici, sono i climatologi a smentirli: «Linee temporalesche come quelle viste in Mesolcina e Vallemaggia fanno parte della nostra climatologia», ha osservato Marco Gaia di MeteoSvizzera ai microfoni della RSI, «ma con il cambiamento climatico in atto innescato dal riscaldamento indotto dalle attività umane, ci attendiamo anche in Svizzera un aumento di questi fenomeni estremi». Poi, certo, gli eventi terribili sono stati numerosi nel passato, come attesta Martino Signorelli nella Storia della Vallemaggia (1972, ed. riveduta pubblicata da Armando Dadò nel 2011): «Poco favorita dalla natura, (non certo in ogni senso, sotto qualche rispetto favorita), la gente valligiana dovette costruire strade e ponti in luoghi impervii, e poi ricominciare perché inondazioni, frane, valanghe avevano portato via tutto». L’elenco delle disgrazie è impressionante: le inondazioni non si contano (le peggiori nel 1566, 1570, 1571, 1588, 1601, 1765, 1868 su su fino al 1924 e, non citata dal Signorelli che non la vide, quella del 7/8 agosto 1978 che interessò l’intera Svizzera italiana, Mesolcina compresa). Ma questo non significa che «è tutta colpa della natura», anzi.

Assai preciso nel denunciare le responsabilità dell’uomo già nei secoli passati fu il compianto storico Raffaello Ceschi (vedi Ottocento ticinese, Armando Dadò, 1986) che ricorda come l’esperto federale Aloisio Negrelli, ingegnere, venuto in Ticino a metà Ottocento dopo una serie di devastazioni naturali «si meravigliò assai nel constatare che, dopo il 1834 non era stata fatta alcuna opera di arginatura e di protezione contro le acque, rimproverò ai ticinesi di favorire essi stessi le proprie disgrazie con i delittuosi disboscamenti che denudavano le pendici delle montagne, favorivano gli scoscendimenti e toglievano ogni freno all’acqua piovana che correva troppo rapida a gonfiare furiosi torrenti». Sotto accusa, allora, non era l’inquinamento da gas serra, ma il sistema delle «sovende», lunghe piste in declivio dal fondo di terra battuta con le pareti fatte di tronchi «su cui i boscaioli e i borradori convogliavano i tronchi tagliati». D’inverno si provvedeva a ghiacciare il fondo delle sovende «per trasformarli in veloci scivoli dove i tronchi venivano avviati uno dopo l’altro come bolidi sotto la sorveglianza di esperti borradori. (...) Nel 1850 Luigi Lavizzari (naturalista di Mendrisio, ndr.) ne aveva osservata una nell’alta Valmaggia che percorreva tutta la valle di Fusio e sfociava a Peccia, dove già si ammonticchiava una enorme catasta di 30 mila tronchi giunti in quel luogo pochi giorni prima della sua visita...». Sterminati i boschi, arrivarono le piene. Insomma, già allora era l’uomo a facilitare le disgrazie climatiche. Con un’attenuante che oggi non abbiamo: le valli erano poverissime e l’unica merce che potevano vendere era il legname da costruzione e combustibili e la robusta manodopera montanara. Alla fine, quando da esportare restarono solo le braccia, iniziò il lungo capitolo dell’emigrazione di massa.