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Apriamo gli occhi: questo è Putin
Guerra in Ucraina: il leader del Cremlino non cerca la pace e fa la voce grossa con la complicità della Cina
Federico Rampini
Donald Trump nelle sue ultime prese di posizione ha smentito che, in caso di vittoria alle elezioni del 5 novembre, farebbe uscire l’America dalla Nato; ha detto che gli basta che l’Europa faccia la sua parte per finanziare le spese per la difesa. Questo è un messaggio rassicurante per gli europei. Trump, però, non ha affatto cambiato parere sull’Ucraina, anzi ha definito Zelensky il miglior venditore del mondo: «L’ultima volta che Zelensky è venuto a Washington è riuscito a farsi dare 60 miliardi di dollari. Appena è tornato a Kiev ha detto che gliene servivano altri 60… Questa storia deve finire» ha detto Trump.
Evidentemente non è intenzionato a proseguire, nel caso venga eletto come nuovo presidente degli Stati Uniti, la politica di aiuti all’Ucraina. Il candidato repubblicano non perde occasione per ribadire che, se torna lui alla Casa Bianca, negozierà la pace in Ucraina in 24 ore. Presumibilmente concedendo a Vladimir Putin tutto quello che vuole? La prospettiva di una rielezione di Trump può contribuire a spiegare la rigidità di Putin. Non gli conviene negoziare adesso, se pensa di poterlo fare tra sei mesi in una situazione a lui molto più favorevole, cioè con un’America che nega aiuti a Zelensky. È questa una chiave interpretativa della conferenza di pace tenuta in Svizzera: a mio avviso un fiasco.
Al vertice svizzero sull’Ucraina non c’era Xi Jinping, che ha declinato l’invito. Da Mosca Putin (non invitato) ha dettato le condizioni di un cessate il fuoco. Includono l’annessione di tutto ciò che la Russia ha già occupato con una guerra criminale; più altre zone che Putin non ha neppure conquistato. Il diktat più pesante è che l’Ucraina rinunci ad ogni cooperazione militare con l’Occidente. Una capitolazione. L’Ucraina dovrebbe regalare all’aggressore perfino più territorio di quanto non si sia preso con la violenza. E dovrebbe rinunciare alla propria sicurezza anche futura. Il veto sull’ingresso nella Nato, nonché su patti bilaterali di difesa come quelli offerti dall’America e alcune nazioni europee, è il preludio a nuove aggressioni. L’alto bilancio di vite sacrificate per difendersi dall’invasione russa sarebbe stato inutile.
Chi si autodefinisce pacifista e da due anni invoca una «soluzione diplomatica», dovrebbe aprire gli occhi: questo è Putin. Non da oggi. Sono rivelatrici le carte pubblicate dal «New York Times» sui negoziati tra febbraio e aprile del 2022, nei primi mesi di guerra. Già allora Putin, oltre alle amputazioni territoriali, esigeva un’Ucraina vassalla della Russia, senza possibilità di accordi di sicurezza con altri Paesi. Chi ha passato questi anni a rimproverare «noi» – Zelensky, Biden, l’Unione europea – di non puntare sulla diplomazia, guardi la realtà in faccia: Putin vuole la resa come premessa per conquiste future; e rispetta solo i rapporti di forza. Oggi può alzare ancora più in alto le sue pretese perché si sente sicuro di sé. Sul fronte militare l’Occidente ha accumulato ritardi, cautele infinite; ha sottoposto le armi che forniva a Kiev a restrizioni d’uso, tali da regalare vantaggi enormi ai russi.
L’Occidente è pavido anche nell’uso delle sanzioni. La vicenda delle ricchezze russe congelate nelle banche europee è desolante. Due anni e quattro mesi di carneficina sul suolo europeo non sono bastati a espropriare le ricchezze russe, per versarle come risarcimento al popolo ucraino. Il G7 non ha cancellato questa vergogna. Le ricchezze restano congelate ma sempre di proprietà russa. Solo una parte degli interessi che quei fondi fruttano, verranno usati per garantire un prestito all’Ucraina. Un prestito, non un risarcimento. La giustificazione di cotanta viltà? Espropriare il patrimonio estero di Mosca metterebbe in dubbio che gli europei rispettino le regole dello Stato di diritto, cioè la sacralità della proprietà. Gli europei – in questo caso l’America chiedeva una linea dura – hanno scelto la codardia, mettendo il diritto di proprietà di Putin al di sopra del diritto alla vita, alla libertà, e alla sovranità del popolo ucraino.
Il G7 ha fatto qualche passo avanti – a parole – sull’aiuto cinese a Putin. Il comunicato finale denuncia che «il continuo sostegno della Cina all’industria militare russa consente di proseguire la guerra illegale contro l’Ucraina e ha ampie ripercussioni sulla sicurezza». Non solo la sicurezza ucraina ma di tutta l’Europa, visti gli appetiti imperiali di Putin. Questa frase del G7 è la presa d’atto di una realtà che dura dal febbraio 2022. Xi Jinping ha promesso «amicizia illimitata» a Putin ed è stato di parola. L’armata d’invasione russa non avrebbe mai potuto risollevare le proprie sorti sul terreno, senza il massiccio supporto economico, finanziario, tecnologico da Pechino. La velocità con cui Putin ha riconvertito il proprio Paese a una economia di guerra, è legata al flusso di forniture dalla Repubblica Popolare. Chi s’illudeva che Xi volesse fare da paciere, non ha capito: il leader comunista ha preso dei rischi scommettendo su Putin, pur di accelerare il declino dell’Occidente.
Il G7 ha cominciato a ridefinire il ruolo della Cina: è citata 28 volte nel comunicato finale, quasi sempre come una potenza pericolosa, protagonista di atti ostili come i continui cyberattacchi contro di noi. Il summit in Puglia ha evocato sanzioni allargate ad aziende cinesi. Non è detto che seguano atti adeguati. La Repubblica Popolare in trent’anni di globalizzazione si è resa indispensabile alle nostre economie. I dazi che Washington e Bruxelles hanno varato di recente contro le sue auto elettriche sono la reazione al fatto che tutta la nostra de-carbonizzazione è in ostaggio al made in China. Perciò Xi è sicuro di farla franca, continuando a tenere i piedi in due mondi: invade i nostri mercati con le sue esportazioni, mentre costruisce una globalizzazione alternativa e sino-centrica, con la Russia, l’Iran, e tanti Paesi emergenti del Grande Sud globale. L’atteggiamento di questi ultimi al vertice in Svizzera non lascia illusioni. Arabia Saudita, Brasile e altri si sono astenuti sulle conclusioni. Hanno recriminato sull’assenza della Russia e della Cina come una colpa degli organizzatori. Il loro cuore batte da quella parte, o per una «neutralità» che non hanno abbracciato su Gaza.
Dietro Putin il vero vincitore di questa fase è Xi: prende il meglio da due mondi e per adesso paga prezzi modesti, dazi e rimbrotti occidentali finora sono poco più che punture di spillo (basta guardare il boom delle esportazioni cinesi in atto). Nel medio-lungo periodo la Repubblica Popolare può pagare prezzi più pesanti, solo se l’Occidente persegue con tenacia due strategie parallele: reindustrializzarsi per guadagnare autonomia, e spostare flussi economici verso Paesi non antagonisti come India, Vietnam, Messico. Per adesso queste nuove mappe della globalizzazione sono un obiettivo distante; non scuotono le certezze dell’asse anti-occidentale che oltre a Cina, Russia, Iran, ha troppi simpatizzanti.
E se il terzo fronte di guerra, dopo l’Ucraina e Gaza, venisse aperto dalla Corea del Nord? La visita di Putin a Pyongyang costringe a prendere in considerazione questa minaccia. L’ipotesi del «non c’è due senza tre» di solito viene fatta con riferimento alla temuta invasione cinese di Taiwan, che rimane una possibilità futura (basta ascoltare Xi Jinping). Non si può escludere però che sia Kim Jong-un a precipitare i tempi di una nuova guerra nel Pacifico.