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Mission impossible al Bürgenstock?

/ 10/06/2024
Carlo Silini

La conferenza di pace per l’Ucraina che si terrà il 15 e 16 giungo al Bürgenstock è già stata massacrata dai media nazionali e internazionali. Noi proveremo a ragionare controcorrente.

Certo, sarebbe illusorio pensare che, dopo l’incontro nel sito nidwaldese sul lago dei Quattro cantoni, Zelensky e Putin si buttino le braccia al collo per rappacificarsi.

Per cominciare, Putin non ci sarà. Del resto: primo, non ci sarebbe mai venuto – soprattutto ora che sul campo di battaglia sta vincendo e mancano pochi mesi all’elezione di un presidente americano che – se fosse Trump – potrebbe far girare l’inerzia statunitense a proprio favore; secondo, proprio perché non aveva intenzione di esserci non è stato invitato. E come si fa a riconciliarsi con un nemico assente? Non ci sarà neppure la Cina, che avrebbe potuto rappresentare Mosca, e altri Paesi importanti, come il Sudafrica, il Brasile o la Turchia. Il rischio è che sull’idilliaca collina elvetica a parlare di pace resterà solo il «fronte occidentale», l’Ucraina e la NATO, che nel caso degli Stati Uniti non saranno neppure rappresentati dal loro numero uno, ma dalla sua vice.

In secondo luogo, di solito i trattati di pace si firmano quando le armi tacciono. Così è successo con la conferenza di Parigi del 1919 organizzata dai vincitori dalla Prima guerra mondiale. E, nella Seconda, i trattati di pace del ’47 furono preceduti da tre vertici a partire dal 1943 (Casablanca, Yalta e Postdam) dove i nazisti non furono invitati. Alla fine, relisticamente, chi vince stabilisce le nuove condizioni di convivenza tra i popoli. Muoversi prima, secondo i critici, non avrebbe quindi senso.

Mission impossible al Bürgenstock, quindi? Se si spera nella pace immediata, sì. Se si pensa, invece, che l’incontro può avviare un cammino che porti a quel risultato, no. Perché a parlare, per una volta, non saranno missili, carrarmati e droni Sokol-300. Discutere, cercare una soluzione diplomatica, è l’unico mezzo per evitare che a decidere il destino del mondo siano solo le armi. «Un diplomatico cercherà sempre di trovare una via di uscita ai problemi – ha detto il presidente della CEI Matteo Zucchi celebrando il Centenario dell’Università degli Studi di Trieste – non si arrende, perché è il suo mestiere, ma anche perché c’è sempre una via di uscita». A parte il Papa e i suoi rappresentati, come mons. Zucchi, chi crede nel dialogo per «trovare una via d’uscita»? Il vertice del Bürgenstock ci sembra l’unico tentativo serio di uscire dalla logica della distruzione del nemico per risolvere i conflitti.

Non fermerà la guerra ora, ma è una via tra il formale e l’informale, i proclami pubblici e le discussioni a porte chiuse per suggerire piste e inviare messaggi agli assenti tramite amici o amici degli amici. Nessuno di noi saprà quale parola, documento o proposta anche solo sussurrata potrebbe creare un varco verso la pace. Forse nessuna. Forse no. Perché non provarci? No, signor Putin, contrariamente a quanto vuol farci credere, la guerra non è l’unica soluzione. Dobbiamo dirlo, anzi gridarlo, non solo per gli oltre 60 mila morti, per i ventenni inviati al fronte o per proteggere il nostro Occidente minacciato. La pace va preparata oggi a dispetto di chi pensa solo a sabotarla. Ecco il messaggio che dal Bürgenstock idealmente è diretto ai bambini, alle donne, ai vecchi, a tutte le vittime di guerra e a chi è stato privato della propria voce in Russia e nei Paesi che stritolano il dissenso: non vogliamo lasciare l’ultima parola alla violenza. Tentiamo – una buona volta – di fermare la guerra un po’ prima che finiscano le armi.