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Si può fare satira senza offendere?

/ 06/05/2024
Carlo Silini

Osservo su Google l’immagine iconica di Igor, l’aiutante del dottor Frankenstein, interpretato da Marty Feldman – attore a cui dedichiamo, a pag. 15, il primo di dieci approfondimenti sul mondo dei comici – e mi chiedo se oggi uno humor del genere sarebbe tollerato. Igor, nella scena del film Frankenstein Junior di Mel Brooks uscito nel 1974, sorride, la testa avvolta nel cappuccio nero e gli occhi a palla da biliardo, sporgenti e strabici. L’effetto comico è dovuto a una patologia oculare cronica data dall’ipertiroidismo di cui soffriva e a un incidente avuto da bambino.

È consentito ridere di una caratteristica fisica legata a un incidente e a una patologia, senza incorrere nella censura del politicamente corretto?

Non si può ridere delle disabilità, delle malattie, delle etnie o delle preferenze sessuali. Lo si può fare per gli imbarazzi universali che accomunano tutti indistintamente, neri e bianchi, gay ed etero, portatori di handicap e normodotati. In Tutti pazzi per Mary, del 1998, si ride praticamente solo per scene scurrili e grossolane, come quella dell’hair gel (chi la ricorda sa di cosa parlo), dei genitali incastrati nella patta, dei rumori corporei al gabinetto. Si fa leva sui bassi istinti. Ma chi ne è al riparo? Del resto, la trivialità muove al riso proprio perché sottolinea una risposta gretta e inadeguata alle aspettative dell’ambiente sociale.

Ma si può ridere anche per divertissement più raffinati. Come le battute di Ennio Flaiano («Oggi il cretino è pieno di idee»), o i pamphlet sarcastici di Voltaire, come il Candido. In ogni caso la satira va maneggiata con attenzione al contesto e senso della realtà. E in certi momenti va evitata. Per esempio, se scatena ondate di violenza, come le vignette su Maometto che hanno innescato allucinanti attentati terroristici. Ma, al di là di casi estremi come quello citato, l’umorismo, di grana grossa o fine che sia, non può conformarsi ai dettami della buona educazione.

Aveva ragione Mariangela Mianiti che, firmando sul «Manifesto» un articolo su Checco Zalone – un altro campione della battuta pubblicamente imbarazzante – ha scritto che «un comico è un buffone, è colui che dice l’indicibile, che per mestiere è scorretto. Se anche lui deve rispettare il balletto delle cortesie, se si deve censurare per non offendere, allora non è più un comico».

Del resto, l’irriverenza dei pagliacci non sempre coincide col disimpegno e la vacuità, anzi. Abbondano i comici militanti che fanno il contropelo alle loro società, finendo col diventare seguitissimi leader politici. Lo si può apprezzare o meno, ma in Italia Beppe Grillo ha creato un movimento d’opinione e di critica strutturale a partire dal non proprio elegante slogan di piazza «vaffan…». E Volodymyr Zelensky è passato in un amen dal fare commedia in tv a gestire la tragedia di una guerra come capo di Stato.

In tempi di censura automatica come i nostri, si può ancora ridere di tutto? Dieci anni fa il comico di origini africane Charles Nguela, vincitore di due Swiss Comedy Awards nel 2014 e nel 2022, sosteneva di sì, «ma dipende da chi lo dice, come e dove. Trovo offensive le battute sulla schiavitù quando provengono da persone bianche. Solo chi ha sofferto dovrebbe scherzare sulla sofferenza. Questo può essere un processo di elaborazione».

Insomma, per essere accettabile, l’umorismo deve fare un bagno di autoironia, dote di cui anche il già citato Feldman, grottesco aiutante di Frankenstein, disponeva in abbondanza, quando affermava di essere «la sola persona mai apparsa in un film horror che non ha bisogno del trucco».