azione.ch
 



Se i giovani scuotono l'America

L’agitazione giovanile in corso da settimane rafforza l’influenza che la politica estera può avere nell’elezione del 5 novembre. Le ragioni e i torti dei manifestanti pro-Palestina, le analogie con l’opposizione alla guerra in Vietnam
/ 06/05/2024
Federico Rampini

Quando accendo la tv a New York, dove abito, tutti i notiziari «aprono» sulle agitazioni nei campus universitari, gli interventi della polizia per sgomberare gli atenei occupati in questa e in altre città americane. È meno visibile il processo a Donald Trump che si tiene nella mia stessa città. E questo a prescindere se il network sia di sinistra come la Cnn o di destra come la Fox. Non solo New York, l’America intera s’interroga sul significato di quest’agitazione giovanile, le sue ragioni o i suoi torti, l’impatto e le conseguenze che potrà avere in varie direzioni. Politica interna, politica estera, battaglia delle idee, egemonia culturale: tutto s’intreccia. Oltre ovviamente alla tragedia in corso in Medio Oriente. Era cominciata in alcuni bastioni dell’accademia più élitaria come Harvard, Columbia e Yale, luoghi dove si formano soprattutto i figli della classe dirigente, con rette da novantamila dollari annui. Poi le manifestazioni, le occupazioni, gli scontri con la polizia si sono estesi ben oltre. A New York è entrato in agitazione anche il City College, che costa poco ed è frequentato dai figli dei ceti medio-bassi inclusi molti immigrati. Se i focolai iniziali erano concentrati nell’America delle due coste dove domina la sinistra, ora si segnalano proteste in Stati del Sud che votano repubblicano.

Gli studenti filo-palestinesi accusano i presidenti/rettori di limitare la libertà di espressione se sgomberano i campus per garantire l’agibilità delle aule. Fino a ieri le stesse autorità accademiche erano accusate di aver consentito un clima di censura e intimidazione imposto dalla sinistra radicale, l’esclusione di voci conservatrici, e dal 7 ottobre 2023 avevano tollerato un’escalation di aggressioni antisemite. Se chiamano la polizia, le autorità accademiche sono descritte come repressive, se non la chiamano, sono succubi di frange estremiste e violente. Nei sei mesi da qui alle elezioni l’uso politico di queste proteste è destinato a crescere. A metà strada (agosto) c’è un appuntamento come la convention democratica di Chicago che evoca inquietanti analogie con quella convention che nella stessa città si tenne nel 1968, in un crescendo di scontri fra la polizia e i manifestanti contro la guerra del Vietnam. L’agitazione studentesca rafforza l’influenza che la politica estera può avere nell’elezione del 5 novembre. Gli scontri (anche tra gruppi filo-palestinesi e filo-israeliani) rilanciano anche temi più domestici come la sicurezza e l’ordine pubblico. Qui ricordo che il Sessantotto originario fa vincere le elezioni americane al conservatore Richard Nixon e quelle francesi al conservatore Charles De Gaulle: allora si parlava di una rivincita della «maggioranza silenziosa» contro la minoranza che occupava le piazze.

La politica estera americana è un bersaglio proclamato di questo movimento studentesco. Non l’Ucraina, che lascia indifferenti i giovani, ma la Palestina. Sorvolo qui sui segnali di ignoranza o disinformazione tra i ragazzi di questa generazione (onestamente non erano meglio istruiti i ragazzi del ’68). Invece seleziono due questioni serie e ineludibili. La prima va al cuore di una contraddizione di Joe Biden. Questo presidente eredita decenni di una politica di sostegno «incondizionato» a Israele (dal 1967). Quell’aggettivo messo tra virgolette è stato contestato a lungo e da più parti: l’America ha continuato a fornire aiuti militari ed economici a Israele anche quando i governi di Tel Aviv ignoravano le pressanti richieste di Washington e facevano scelte contrarie agli interessi veri degli Stati Uniti. Oggi quella contraddizione è esplosa più che mai. Pur difendendo il diritto all’esistenza dello Stato d’Israele, Biden è in forte contrasto con Netanyahu, sulla questione dello Stato palestinese, sugli aiuti umanitari, sulla condotta della guerra contro Hamas e sugli insediamenti di coloni in Cisgiordania. Però Biden non osa cancellare nei fatti l’aggettivo «incondizionato»: da una parte critica duramente Netanyahu, dall’altra continua a fornire aiuti militari decisivi alle forze armate israeliane. Gli studenti vorrebbero farli cessare subito. I contestatori considerano Biden corresponsabile di quello che definiscono il genocidio dei civili a Gaza. Comunque si veda la questione, è un dato oggettivo che Gaza sta diventando «la guerra di Biden» come il Vietnam fu «la guerra di Lyndon Johnson». Con le dovute e significative differenze: dal Vietnam ogni giorno tornavano delle bare con salme di giovani americani caduti al fronte. Nel 2024 l’America non combatte direttamente, o almeno non a Gaza, anche se alcune sue basi militari e le sue flotte sono intervenute: contro i missili e droni iraniani, contro gli Hezbollah, contro gli Houthi nel Mar Rosso.

In parallelo alle accuse a Biden, c’è un’altra campagna portata avanti dal movimento studentesco, quella sui «disinvestimenti»: i manifestanti esigono dalle loro ricchissime istituzioni universitarie (e in prospettiva dall’America tutta intera, aziende, banche) che chiudano ogni investimento suscettibile di aiutare gli insediamenti illegali di coloni israeliani in Cisgiordania o altre forme di sfruttamento della popolazione palestinese. Si ispirano alla campagna di disinvestimento che colpì il Sudafrica ai tempi del dominio razzista della minoranza bianca. Quel movimento di boicottaggio economico contribuì alla fine dell’apartheid e alla vittoria di Nelson Mandela contro l’apartheid (anche se non fu così decisivo come si tende a credere). A ispirare la Generazione 2024 o Generazione Gaza c’è una visione etica della politica estera: l’America dovrebbe comportarsi nel mondo intero in conformità con i valori a cui dice di ispirarsi nella sua Costituzione. Questo movimento si iscrive in una tradizione radicata soprattutto nel partito democratico.

All’interno di questa ispirazione apprezzabile, il movimento studentesco però si è macchiato di un peccato originale. Fin dalle prime ore successive al massacro di Hamas il 7 ottobre una miriade di associazioni studentesche approvarono subito il massacro di civili israeliani, lo stupro in massa di donne, il rapimento di bambini. Molto prima che arrivasse la controffensiva israeliana a fare strage a Gaza, tutto fu assolto in quanto giusta vendetta per i torti subiti dai palestinesi. Quell’usare due pesi e due misure – la violenza israeliana è orribile, quella di Hamas è sacrosanta – continua tuttora e perseguita il movimento. Lo espone alle accuse di antisemitismo, che sono giustificate da innumerevoli atti di aggressione avvenuti nei campus, molti dei quali sono diventati dei luoghi non solo inospitali ma perfino insicuri per studenti di origini ebraiche o di nazionalità israeliana. Questa macchia si collega a un altro peccato originale, che non si riferisce solo a Gaza ma all’ideologia prevalente nei campus. Interpreta l’intera storia delle civiltà e l’universo mondo attraverso il trittico potere-oppressione-privilegio; divide l’umanità in oppressi e oppressori, sfruttati e sfruttatori; schiaccia la complessità dentro categorie manichee (buoni-cattivi, bianco-nero); riduce quindi il mondo contemporaneo a una massa di vittime (il Grande sud globale, gli ex-colonizzati, le minoranze etniche dei nostri Paesi) e un unico carnefice che è la razza bianca, dominatrice, aggressiva. Fanatismo, intolleranza, perfino l’apologia della violenza derivano da questa visione del mondo.