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Le ombre della democrazia diretta

Il 19 aprile di 150 anni fa il popolo approva l’introduzione del diritto di referendum che fa del nostro Paese un caso speciale, ma le sfide non mancano, ad esempio quella di definire la priorità tra la volontà popolare e gli accordi internazionali
/ 29/04/2024
Roberto Porta

Ma quale sarà mai l’anno di nascita del nostro Paese? Il 1291, in ricordo del giuramento del Grütli, considerato a tutti gli effetti l’atto fondatore della Confederazione elvetica? O il 1848, quando venne creata la Svizzera moderna, con Berna come capitale e con il franco come unica moneta? Oppure dovremmo piuttosto sottolineare l’eredità che ci ha lasciato il 1874, anno in cui nella nostra Costituzione venne introdotto il diritto di lanciare un referendum? La risposta ufficiale la conosciamo tutti, anche se l’anno scorso in Parlamento c’è chi si era mosso per aggiungere al primo di agosto una seconda festa nazionale. Si trattava del 12 settembre, giorno in cui nel 1848 venne approvata la prima Costituzione della Svizzera moderna. Il Parlamento ha bocciato questa proposta, in un contesto in cui le autorità federali hanno comunque dato parecchio risalto ai 175 anni della nostra Magna Charta.

Poca gloria nazionale, invece, è stata finora riservata al 1874, anno che meriterebbe una maggiore attenzione, visto che il 19 aprile di 150 anni fa nacque a tutti gli effetti la democrazia diretta svizzera, uno dei capisaldi sui cui poggiano le istituzioni del nostro Paese. Quel giorno venne approvata in votazione popolare una prima revisione della Costituzione federale, che tra le altre novità prevedeva l’introduzione del diritto di referendum per opporsi ad una legge varata da Governo e Parlamento. Cosa sarebbe mai la Svizzera senza questo diritto? La risposta è semplice: il nostro Paese sarebbe una democrazia come tutte le altre. Il 1874 fece invece della Svizzera un «Sonderfall», un caso particolare. Se Gugliemo Tell e la sua leggenda rappresentano nell’immaginario collettivo la resistenza all’oppressore straniero, il referendum permette invece al nostro Paese di fare del suo popolo un «sovrano», chiamato ad avere l’ultima parola sulle leggi più controverse. Chi si opponeva allora a questa riforma riteneva il popolo «immaturo» per poter affrontare un compito del genere. Su questo fronte c’era anche Alfred Escher, una delle figure di maggiore prestigio di quel periodo storico. A lui la Svizzera deve molto: il Politecnico di Zurigo, lo sviluppo delle linee ferroviarie, la prima galleria del San Gottardo e anche il Credit Suisse, per citare solo alcune delle sue opere. Fosse stato per lui, che fu deputato in Parlamento, il nostro Paese non avrebbe però avuto il diritto di referendum, come a dire che anche i grandi visionari a volte possono mancare un appuntamento con la storia, quella con la S maiuscola. Eh sì, perché il referendum ha davvero avuto un effetto maiuscolo sulle istituzioni elvetiche, le ha di fatto rimodellate dopo il rodaggio iniziato nel 1848. Governo e Parlamento si muoverebbero in modo diverso se non ci fosse questo strumento di democrazia diretta.

La concordanza tra i partiti e la necessità di coinvolgere associazioni o categorie interessate da una nuova legge con la famosa «procedura di consultazione» non esisterebbero in questa forma se non ci fosse il diritto di lanciare un referendum, diritto che non per nulla viene anche chiamato «minaccia». Un effetto che si estende poi a tutto il Paese, come ricorda Dennis de Rougemont nel suo libro La Svizzera, storia di un popolo felice: «Il referendum obbliga le autorità a giustificare pubblicamente le proprie intenzioni, induce la stampa a discutere il problema, spinge il corpo elettorale a riflettere e a informarsi e tutto ciò occupa e anima la vita civica». Nel 1891 al referendum venne affiancato anche il diritto di lanciare delle iniziative popolari, un «paso doble» che permise alla democrazia diretta elvetica di assumere la sua forma definitiva, quella che conosciamo anche oggi.

Con qualche nuvola però all’orizzonte. La prima è interna, ed è un fatto di cui si parla oggettivamente troppo poco. Da diversi anni a questa parte la raccolta di firme per referendum e iniziative si è molto professionalizzata, con delle vere e proprie agenzie specializzate e con personale a pagamento. Retribuzioni che stando a un paio di inchieste giornalistiche svizzero tedesche possono anche arrivare ai sette franchi per ogni sottoscrizione raccolta. Per Governo e Parlamento questo tipo di retribuzioni non sono però un problema, visto che negli anni sono stati respinti diversi atti parlamentari che chiedevano di contrastare questa «mercificazione» della democrazia diretta. Non si tratta certo di tornare agli albori della democrazia diretta, quando la raccolta delle firme era di tutt’altra natura: chi voleva sostenere un referendum trovava i formulari del caso solo in ristoranti e negozi, e ci doveva andare di persona. Facoltosi o meno, i referendisti di allora giocavano in questo modo più o meno ad armi pari. Oggi non è più così, la democrazia diretta dipende anche dai fondi a disposizione di chi si lancia in questa sfida. E su questo punto qualche accorgimento per equilibrare il sistema sarebbe opportuno. Il secondo nodo da sciogliere riguarda invece il rapporto tra la nostra democrazia diretta e gli accordi internazionali, europei in particolare, che il nostro Paese ha scelto di sottoscrivere. La recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha dato ragione alle Anziane per il clima nella loro causa nei confronti della Confederazione ne è un esempio.

Negli anni il «popolo sovrano» del nostro Paese ha di certo preso alcune decisioni che hanno rallentato la  politica climatica elvetica, su tutte va ricordata la bocciatura della legge sul CO2 nel giugno del 2021. E qui si pone il problema: chi ha la priorità? La sentenza di Strasburgo o la decisione del popolo svizzero? Un gran rompicapo che, seppur in termini diversi, si proporrà anche nei negoziati in corso tra Svizzera e Unione europea per la definizione dei nuovi rapporti bilaterali. Sul tema nel 2018 si è espresso anche il popolo, quando due cittadini su tre bocciarono un’iniziativa targata UDC che chiedeva di dare la priorità al diritto svizzero e non ai tribunali stranieri. Ora c’è chi è pronto a lanciare un’altra iniziativa su questo tema, lo ha annunciato l’associazione Kompass/Europa che vede tra i suoi fondatori anche il finanziere e miliardario Urs Wietlisbach. La democrazia diretta svizzera sarà di nuovo messa alla prova in un mondo sempre più globalizzato. Un braccio di ferro che determinerà il posizionamento del nostro Paese sullo scacchiere internazionale e le sue relazioni con le organizzazioni internazionali di cui fa parte. Scintille, politiche, in vista.