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Andiamo allegramente a «faticà»

/ 15/04/2024
Carlo Silini

In napoletano «lavorare» si dice «faticà», cioè «fare fatica». Il termine veicola un concetto poco entusiasmante, assai lontano dall’idea che esercitare un mestiere ci colmi di gioia. E adombra l’atteggiamento tra l’ironico e il disilluso che caratterizza il rapporto tra i napoletani e il lavoro che, anche nel migliore dei casi, e non solo per loro, resta una fatica.

In realtà, lo sanno bene i disoccupati, il lavoro è una benedizione e va sempre apprezzato, senza pretendere che sia il paradiso: soddisfazioni e fatiche sono comprese nello stesso pacchetto. Commisero i «workaholic», dipendenti patologici dall’universo lavorativo, privi di una vita decente al di fuori di esso. Mi rallegro se riesco a contribuire al funzionamento e, idealmente, al benessere del pianeta con la mia fettina di impegno professionale. Al tempo stesso anelo alle vacanze, nel tempo libero «ho una vita» e coltivo interessi che spero di portarmi appresso anche in pensione.

Questa apparente normalità, tuttavia, è una condizione privilegiata per la quale bisogna ringraziare non solo la genetica o la buona voglia, ma anche la lungimiranza di quei datori di lavoro che si mostrano attenti al benessere del proprio personale. Non è scontata. Qualche mese fa è emerso, per esempio, che un noto gruppo di commercio online bistrattava i propri impiegati a Neuendorf, nel canton Soletta, sottopagandoli e costringendoli a controllare almeno 41 capi di abbigliamento all’ora. Quando non ci riuscivano venivano minacciati, separati gli uni dagli altri e vessati. «Non biasimo chi compra sulla nostra piattaforma, diceva una dipendente, ma paghiamo noi, col nostro lavoro». Un caso limite, ma per troppe persone il posto di lavoro è l’Armageddon esistenziale, la graticola sulla quale normalmente salgono alle otto di mattina e scendono alle cinque di sera. Un luogo di sofferenza psichica.

Ne fa stato il servizio di questa settimana in cui Stefania Prandi intervista un’ex professoressa che ha attraversato l’inferno del burnout e oggi aiuta ad uscirne chi ne rimane vittima. Un esercito. Stando all’ultimo Job-Stress-Index, rapporto curato dalla fondazione Promozione salute Svizzera, dall’Università di Berna e dalla Scuola universitaria professionale di Zurigo, il 30,3% di chi lavora nel nostro Paese si sente emotivamente esaurito.

Le cause? I ritmi eccessivi di lavoro, per esempio. Secondo un sondaggio della Segreteria di Stato dell’economia del 2021, in nessun altro Paese europeo il ritmo di lavoro e la pressione per le scadenze sono elevati come in Svizzera. Aggiungici qualche capo tiranno, un collega rognoso, il mobbing, le molestie non solo sessuali, l’impressione di essere disprezzati o sottovalutati e il risultato è che invece di essere il principale fattore di realizzazione personale, il lavoro può avvelenare le nostre esistenze. Soluzioni? Credo che molte tensioni si abbassino applicando la regola d’oro: «Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te». Se non basta o non è possibile, forse il difetto è nel manico: nelle condizioni di lavoro squilibrate o ingiuste, o in un ambiente malsano. Allora è meglio cambiare aria. Magari andando a «faticà» a Napoli, per dire.