azione.ch
 



I due gravi problemi del Cremlino

Mosca ha sottovalutato l’affacciarsi di alleanze scomode e nuovi nemici, come l’Isis-K, inoltre deve fronteggiareun’ondata di xenofobia interna contro gli immigrati dal Caucaso e soprattutto dall’Asia Centrale
/ 01/04/2024
Anna Zafesova

Sembra di rivivere il settembre nero del 1999, quando nella periferia di Mosca esplodevano i palazzi residenziali. Sembra di rivivere l’ottobre del 2002, quando per tre giorni tutta la capitale russa sperava, il fiato sospeso, che la presa degli ostaggi nel teatro sulla Dubrovka sarebbe finita con il loro rilascio. Erano tanti anni, quasi tredici, che il cuore della Russia non veniva colpito da un attacco terroristico, dalle bombe dei kamikaze caucasici nel 2011 all’aeroporto di Domodedovo e, pochi mesi prima, nella metropolitana. La Russia si era quasi abituata a quella sicurezza che Vladimir Putin le aveva promesso fin dall’inizio del suo regno.

Era cresciuta una generazione di russi per la quale un attentato islamista veniva attribuito semmai ai rischi della vita in Occidente, a Parigi, a Bruxelles, a Nizza. Tutta questa sicurezza è andata in frantumi la sera del 22 marzo, cinque giorni dopo che Putin ha confermato, organizzando un 87% di sostegno alla sua quinta rielezione al Cremlino, di avere acquisito un controllo totale sul Paese che governa da un quarto di secolo.

L’attentato al teatro del centro commerciale Crocus City, alle porte di Mosca, ha risvegliato l’incubo della minaccia dell’Isis, ricordando più la strage del Bataclan a Parigi che quella della Dubrovka. I terroristi che hanno sparato agli spettatori del concerto non volevano negoziare, come i guerriglieri ceceni degli anni Novanta: volevano uccidere il maggior numero di persone nel minor tempo possibile. E ci sono riusciti. I soccorsi sono arrivati quando il commando era già scappato, ma per quasi un’ora i poliziotti e i vigili del fuoco non sono entrati nell’edificio in fiamme, mentre nei social apparivano i video degli spettatori terrorizzati che per salvarsi tentavano di spaccare le porte di vetro delle uscite di sicurezza, chiuse con il lucchetto. Una successiva indagine ha stabilito che il teatro – una sala che aveva ospitato negli ultimi anni eventi appariscenti, tra cui il concorso Miss Universo patrocinato da Donald Trump, partner d’affari dell’imprenditore Aras Agalarov, proprietario del Crocus – non risultava al catasto come luogo di raduni pubblici, quindi non era stato sottoposto a controlli e, a quanto pare, sprovvisto di un sistema antincendio.

Un fallimento clamoroso del sistema di sicurezza russo, in una città farcita di telecamere con riconoscimento facciale, e di poliziotti che arrestano in tre minuti chiunque osi srotolare un manifesto contro la guerra in Ucraina o depositare un fiore alla memoria di Alexey Navalny. Non stupisce che, dopo quasi 20 ore di attonito silenzio, Putin abbia deciso di incolpare della strage Kiev, sostenendo che i quattro terroristi – nel frattempo arrestati dalle forze speciali russe a 400 chilometri da Mosca e identificati come immigrati dal Tagikistan – fossero «attesi al confine ucraino». Una «pista» che aiuta anche a dimenticare come Vladimir Putin avesse respinto come «una provocazione» l’allarme di un attentato islamista diramato due settimane prima circa la possibilità di una strage dall’ambasciata americana in Russia. Il capo del Servizio federale di sicurezza (Fsb) Aleksandr Bortnikov non solo ritiene che siano stati gli ucraini a «manovrare e addestrare» i jihadisti dell’Isis, ma vede nella strage anche «tracce del coinvolgimento dell’intelligence americana e britannica».

Dopo anni in cui tutto – diplomazia, sicurezza, propaganda – era rivolto a Occidente, alla «guerra esistenziale» come la definisce Putin contro l’Ucraina diventata filoeuropea e filoamericana, l’apparizione della minaccia da Oriente è qualcosa cui il Cremlino si rifiuta di credere.

Il ministro degli Esteri russo Lavrov ha definito la teoria della responsabilità degli jihadisti come «comoda per l’Occidente»

Nonostante le ripetute rivendicazioni dell’Isis, che ha anche pubblicato filmati atroci girati dentro il centro Crocus dagli stessi attentatori, il ministro degli Esteri Sergey Lavrov ha definito la teoria della responsabilità degli jihadisti come «comoda per l’Occidente», motivo per il quale – ha spiegato – Mosca ha rifiutato l’offerta di collaborazione dell’Interpol nelle indagini. Le inchieste si baseranno sulle confessioni dei terroristi, che sono stati torturati subito dopo l’arresto: all’udienza al tribunale uno degli attentatori aveva un’enorme fasciatura al posto dell’orecchio, e un altro è stato portato in aula in carrozzella, in stato di apparente coma, con il camice della terapia intensiva.

È evidente che in queste condizioni gli indiziati confesseranno qualunque crimine a loro attribuito. Ma al di là del suo obiettivo di incolpare gli ucraini, il Cremlino ora ha due gravi problemi. Il primo è che la sua politica internazionale, spesso guidata dal desiderio di contrapporsi agli Usa anche in zone lontane dall’Europa, ha sottovalutato alleanze scomode e nuovi nemici: l’Isis-Khorasan, a quanto pare, ha messo Mosca nel mirino per il suo avvicinamento ai suoi avversari talebani, oltre che per l’intervento in Siria a fianco di Bashar al Assad. La Russia aveva pagato il prezzo del suo coinvolgimento a fianco di Damasco nel 2015, quando una bomba aveva fatto esplodere un aereo russo pieno di turisti sopra il Sinai. Ma anche quella è stata una minaccia rapidamente dimenticata e ritenuta arginata. Il secondo problema è interno alla Russia. I volti insanguinati dei tagiki arrestati hanno alzato un’ondata di xenofobia già alimentata negli anni scorsi dalla retorica del «mondo russo» promossa dal putinismo, e le manifestazioni di ostilità nei confronti degli immigrati dal Caucaso e soprattutto dall’Asia Centrale – milioni di persone, clandestini e legalizzati, che compongono un esercito di sottopagati che svolgono lavori snobbati dai russi – si sono moltiplicate. Diverse regioni russe stanno aderendo all’ondata di odio e paura bloccando gli ingressi di nuovi immigrati, oppure organizzando raid negli ostelli e nei cantieri, mentre deputati della Duma e propagandisti televisivi invocano il ritorno della pena di morte. L’Isis-K intanto ha già promesso nuovi attentati per vendicare i confratelli, e se i servizi di Mosca insisteranno a cercare la «pista ucraina» potrebbero rimanere impreparati a una nuova strage.

Fiori davanti al luogo della strage. (Keystone)