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I Mori, Biancaneve e la Messa in latino

/ 25/03/2024
Carlo Silini

E così oggi – laici e agnostici, atei e credenti – entreremo tutti e quanti nella liturgia sacra e profana della Settimana Santa con la solida certezza che i Mori delle Processioni storiche di Mendrisio saranno uguali a sé stessi, con la faccia canonicamente dipinta di nero, così come li abbiamo visti per tempo immemore lungo le vie del Borgo.

Per chi ignorasse la questione, esponiamo in estrema sintesi i fatti ricordando che qualche tempo fa è emerso che le persone chiamate a interpretare i Mori nell’ambito della manifestazione religiosa momò non avrebbero più sfilato col volto pitturato, come avviene da sempre. La ragione? Per non incorrere nell’accusa di bieco «blackface». Il termine inglese indica uno stile di maquillage che consiste nel truccarsi in modo palesemente non realistico per assumere le sembianze stereotipate di una persona di colore, una prassi da molti ritenuta razzista.

La reazione di buona parte dei mendrisiensi, che hanno visto in questa scelta un tradimento della secolare tradizione, ha spinto gli organizzatori a fare retromarcia: il trucco facciale per quest’anno rimarrà ma la questione verrà poi ridiscussa con un «dibattito a porte chiuse».

Tranquilli, non alimenteremo la polemica, che è accesa e rischia di restarlo ancora a lungo. Non lo facciamo per non trasformarla in un gioco che va molto al di là del mero oggetto del contendere, una diatriba locale simbolicamente importante, ma oggettivamente poco grave, di fronte ai veri problemi del mondo (e a ben vedere, anche del Mendrisiotto).

Più del trucco dei Mori, di cui è giusto si continui a discutere serenamente, ci interessano le due filosofie che soggiacciono alla polemica. Da una parte la visione cosiddetta woke o politicamente corretta per la quale occorre evitare di perpetuare abitudini, parole e prassi che avallano idee aberranti e inaccettabili, come il razzismo, il sessismo o l’antisemitismo. Dall’altra la visione secondo la quale la tradizione è portatrice di valori identitari antichi e non può essere ridiscussa o addirittura cancellata in nome delle nuove sensibilità emerse nel presente.

Quando rifiutano di dialogare, entrambe le visioni appaiono discutibili e irritanti, ma prese per il verso giusto sono tutte e due nobili e sostenibili. Oggi il «politicamente corretto» gode di pessima fama per gli eccessi nei quali è caduto, tipo la censura dei classici o la bufera sulla Disney per il cartone animato col «bacio non richiesto» del principe a Biancaneve addormentata. Ma non dobbiamo dimenticare che in certi contesti la visione woke (termine che letteralmente significa «sveglio») è un prezioso grimaldello per scardinare la subcultura della discriminazione, perché impone di «stare all’erta» nei confronti delle ingiustizie contro i più deboli e le minoranze.

Sul fronte opposto, l’amore per le antiche tradizioni rischia a volte di aggrapparsi alle forme originali e «immutabili» più che ai suoi contenuti profondi (come quando, restando in ambito religioso, si pretende che l’unica Messa valida sia quella in latino). In compenso, una sana passione per la tradizione, spirituale o culturale che sia, è necessaria per contrastare la mitizzazione del «nuovo» che non sempre corrisponde al «meglio» e il pericolo dell’omologazione in un’unica brodaglia globalizzata che tende a cancellare le differenze e ad annegare nell’oblio o nella riprovazione tutto ciò che sa di antico, ritenendolo obsoleto e/o nocivo.

È possibile conciliare queste due scuole di pensiero? Si riuscirà a trovare un punto di equilibrio tra «presentismo» e «passatismo» in modo che il presente purifichi il passato senza distruggerlo e il passato fecondi il presente senza demonizzarlo? Forse solo in sogno. Un bel sogno pasquale.