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Una riflessione invece della mimosa

/ 04/03/2024
Simona Sala

Vi è una Risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, la 1325, che si chiama «Donne, pace e sicurezza» e dagli Stati esige l’elaborazione di un piano d’azione nazionale. La Svizzera, nel suo ultimo piano d’azione (valido per il periodo 2018-2024), ha fissato cinque priorità: coinvolgimento più efficace delle donne nella prevenzione dei conflitti, partecipazione delle donne e impatto del loro coinvolgimento sulla risoluzione dei conflitti e i processi di pace, protezione contro la violenza sessuale e di genere durante i conflitti, la fuga e la migrazione, partecipazione delle donne a impieghi di promozione della pace e alla politica di sicurezza e infine impegno della Svizzera sul piano multilaterale e bilaterale per la risoluzione 1325 «Donne, pace e sicurezza».

A pochi giorni da un 8 marzo che ci vorrebbe protagoniste e festeggiate (di solito con l’inconfondibile fiore giallo che fa capolino al massimo quella volta all’anno) sarebbe forse più opportuno un bilancio, in luogo di una risoluzione destinata a restare lettera morta, anche se i risultati sarebbero assai poco edificanti. Qual è stato infatti, in tempi recenti, il ruolo di molte donne, sia in guerra sia nella vita di tutti i giorni? Semplicemente quello delle vittime. Vittime russe, ucraine e palestinesi, con la loro perdita di figli e mariti, vittime israeliane, con una serie di stupri che qualcuno ancora fatica a riconoscere nella loro portata, vittime svizzere e italiane accoltellate, bastonate, «sparate», strangolate o avvelenate nelle proprie case o per strada dai propri «uomini».

Eppure, se solo l’altra metà del cielo ci lasciasse fare, o perlomeno ci lasciasse provare a fare qualcosa, o anche solo, ci lasciasse la nostra metà del cielo, le cose potrebbero anche andare in un altro modo. Avrebbero potuto andare ad esempio diversamente se, più di un secolo fa, in pieno primo conflitto mondiale, governi e opinione pubblica avessero dato maggiore fiducia alla delegazione internazionale di donne riunitasi in congresso all’Aja, in barba a mariti, figli e fratelli, per discutere della guerra. Da quegli incontri, uscirono risoluzioni/richieste di importanza vitale, nonché un commento al vetriolo da parte di un uomo: le donne chiesero la parità tra i generi nelle trattative di pace (che nessun uomo si affrettò a mettere in pratica), l’istituzione di una Società delle Nazioni (idea che agli uomini piacque tanto da creare l’ONU) e di un tribunale penale internazionale (spinta su cui nacque quello dell’Aja). L’uomo, in questo caso un giornalista del «Figaro», a quelle donne coraggiose rispose: «Lasciate la pace a coloro che la guerra la fanno». Per dovere di cronaca, lo United Nations Security Council in uno studio ha dimostrato come gli accordi di pace cui partecipano delle donne abbiano nettamente più possibilità di durare nel tempo.

Come ha dichiarato la già Consigliera nazionale e ideatrice della campagna 1000 Women for the Nobel Prize 2005 Ruth-Gaby Vermot-Mangold, «le donne non sono esseri umani migliori, sarebbe terribile! (…) Facciamo tanti errori quanto gli uomini, ma il fatto che ogni giorno ci ritroviamo a dovere gestire la quotidianità e a organizzarla, e a fare funzionare le cose, ci porta a essere persone capaci di guardare alla guerra e alla pace sotto punti di vista molteplici». Del discorso di Vermot-Mangold, persone capaci è forse l’espressione che ci piace di più. E forse, quando la donna sarà riconosciuta come capace, sarà bello ricevere anche la gialla mimosa.