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Non ditelo alle macchine, ma siamo meglio noi

/ 26/02/2024
Carlo Silini

L’esplosione dell’intelligenza artificiale (IA), con la quale ognuno di noi può flirtare grazie a qualche App sul telefonino o sul computer, marca un salto quantico rispetto al passato e ancora una volta ci divide tra «neoluddisti» ed entusiasti.

I «neoluddisti» sono i nipotini del movimento creato da Ned Ludd all’inizio dell’Ottocento per protestare contro la diffusione dei telai meccanici e la conseguente disoccupazione da essi generata. Oggi si esprimono i medesimi timori riguardo all’IA. I posti di lavoro legati ai mestieri ripetitivi che verranno spazzati via dal vento dell’innovazione saranno 75 milioni, sostengono gli autori di uno studio Wef basato sui dati forniti dai responsabili delle risorse umane e i top strategy executive di 12 industrie e 20 economie sviluppate ed emergenti.

Gli entusiasti ritengono che sì, è vero, si perderanno milioni di posti di lavoro, ma se ne creeranno molti di più. Come in ogni precedente rivoluzione industriale, sostengono, la tecnologia sgraverà l’essere umano dalle funzioni più materiali e ripetitive, liberando spazio per nuove professioni più creative e interessanti. Basta con mestieri come quello degli addetti all’inserimento manuale di dati in sistemi informatici, o a compiti amministrativi come la gestione delle buste paga e dei libri contabili. Ci penseranno le macchine, e lo faranno meglio degli umani, così imperfetti. In compenso, serviranno nuove professioni, in particolare nell’ambito dell’information technology. Andranno a ruba – secondo il già citato studio del Wef (World Economic Forum) – gli esperti di analisi dei dati e gli scienziati, gli studiosi di intelligenza artificiale e i manager gestionali. Poi, ma questa è musica corrente già da diversi anni, gli sviluppatori di software e i professionisti dei settori vendite e marketing.

Insomma, se i guru dell’economia hanno ragione, nel giro di un anno il rapporto uomo-macchina si rovescerà. Oggi è di 71 a 29. Significa che il 29% del lavoro già lo fanno i robot, mentre il 71% viene ancora svolto da esseri umani. Le previsioni del Wef dicono che entro il 2025 questa proporzione si sovvertirà e il 52% delle ore di lavoro saranno appannaggio dei sistemi automatizzati.

Non so se essere più entusiasta o «neoluddista». Una parte di me pensa alle ragazzine che si bruciavano le mani nelle filande di fine Ottocento e inizio Novecento anche qui in Ticino e sa che i telai meccanici hanno liberato le nostre bisnonne da una cinica forma di schiavitù lavorativa. Così come i trattori hanno generato contadini con la schiena dritta e non ingobbita sui campi, le lavastoviglie hanno emancipato le donne, e via via l’utilitaria, i computer, internet e gli smartphone hanno reso più vivibili infiniti aspetti della nostra esistenza. In altre parole: tecnologia, se ci liberi da fardelli e schiavitù sei la benvenuta.

Un’altra parte di me si ribella al passaggio sistematico del lavoro dalle mani dell’uomo alle macchine e ai loro algoritmi. Non è che piano piano i robot e le varie forme di IA che sbocciano azzereranno gli spazi veramente umani? A volte mi sento già orfano di quell’intelligente fallibilità delle donne e degli uomini che rende «calda» la nostra esistenza, dei margini di errore che generano scoperte nuove, adattamenti astuti, strategie esistenziali e lavorative più aderenti alla realtà ed efficaci. In un universo professionale dominato dalle macchine, il caos sulla scrivania, la risata improvvisa, la tazzina sporca di caffè, le valutazioni di pancia e l’intuizione inaspettata che emerge dai nostri scarabocchi mentali sono un lusso che nessuna mente artificiale potrà mai concedersi e concederci. Non ditelo alle macchine, ma siamo meglio noi.