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Se il dominio di Putin è totale

Cosa significa la morte di Alexey Navalny a un mese dalle elezioni presidenziali russe e la necessità di immaginare un’azione politica in un Paese diventato una dittatura. La guida almeno morale dell’opposizione: Yulia Navalnaya
/ 26/02/2024
Anna Zafesova

La fine di Alexey Navalny nel carcere oltre il circolo Polare dove il regime del Cremlino lo aveva rinchiuso era in qualche modo una morte annunciata. I post ironici dell’oppositore sui social – sempre più radi e laconici, dopo che era stato spostato in un carcere di massima sicurezza e i suoi avvocati arrestati come suoi «complici» – nei quali descriveva in toni quasi divertiti i tormenti cui veniva sottoposto, non nascondevano il fatto che Navalny veniva sottoposto a una tortura continua. «È stato torturato con la fame per tre anni», ha detto dopo la sua morte la moglie Yulia, è stato torturato con il freddo, con l’assenza delle cure mediche, con l’isolamento in cella di punizione è l’ora d’aria a meno 20 gradi, in una cella minuscola che si distingueva da quella dov’è era rinchiuso soltanto per l’assenza del tetto. Nemmeno la persona più robusta sarebbe riuscita a sopravvivere per altri vent’anni in quelle condizioni, e Navalny – che a 47 anni aveva già alle spalle l’avvelenamento con l’agente nervino Novichok, nell’agosto 2020 – diceva che era un «prigioniero a vita: o mia, o quella di Putin».

Una morte annunciata, che però ha provocato uno shock, in Russia e all’estero. Fino al momento dell’annuncio del decesso, il 16 febbraio 2024, era difficile credere che il Cremlino avrebbe osato superare un’altra linea rossa. Navalny era il dissidente russo più famoso nel mondo, premio Sakharov del Parlamento europeo, protagonista di un documentario che aveva vinto l’Oscar, sorvegliato speciale di Governi e organizzazioni internazionali: un personaggio il cui stesso peso mediatico e politico sembrava metterlo al riparo da gesti estremi da parte del regime. Era così per l’Unione Sovietica, con Sakharov e Solzhenitsyn, non è stato così con il Cremlino di Putin che ha voluto mandare un messaggio chiaro a tutti, ai russi, agli ucraini, agli occidentali: non esistono «linee rosse», e nessun danno reputazionale è considerato eccessivo. In molti, in Occidente, si sono chiesti se la morte di Navalny, a un mese dalle elezioni presidenziali, convenisse a Putin, ma la risposta è che non si tratta di elezioni, bensì di un rituale totalmente organizzato dal Cremlino, che sceglie chi corre e quanti voti riceverà.

È una dimostrazione del dominio totale di Putin sulla Russia, e la morte di Navalny è funzionale allo stesso messaggio: nessun compromesso verrà cercato, nessun dissenso verrà più tollerato. Lo si è visto dalle centinaia di arresti di russi che depositavano fiori agli altarini improvvisati per il dissidente: la polizia ha minacciato e picchiato molti di loro, e agli uomini sono subito arrivate lettere di coscrizione come punizione. Lo si è visto dalla macabra manipolazione con il corpo di Navalny, nascosto ai parenti e agli avvocati per non meglio precisati «esami», e dalla «sindrome di morte improvvisa» citata come causa del decesso, in una palese presa in giro che ricorda le diagnosi del Gulag staliniano, nel quale tutti i detenuti morivano di «paralisi cardiaca». Lo si vedrebbe ancora più spietatamente se venisse confermato che il detenuto più famoso della Russia è stato ucciso, non dalle torture e dalle condizioni disumane del carcere, ma da un veleno somministratogli per mostrare a tutto il mondo che dalla vendetta dei servizi russi non c’è scampo.

Una sfida, alla quale ora le diplomazie sono chiamate a trovare la risposta. Le «elezioni» di Putin potrebbero essere proprio uno dei bersagli della reazione dell’Occidente alla morte di Navalny, ora allo studio di diversi Governi. Gli Stati Uniti hanno già annunciato un nuovo pacchetto di sanzioni, minacciato da Joe Biden in caso di decesso dell’oppositore in carcere già tre anni fa, al momento del suo arresto. Doveva essere una misura deterrente contro il Governo russo, quindi possiamo immaginare che le nuove sanzioni colpiranno qualche settore o persona del regime rimasti finora indenni. Al Consiglio dei ministri degli esteri del G7 e all’Europa la vedova di Navalny ha chiesto invece di non riconoscere le elezioni che a metà marzo dovrebbero regalare a Putin il quinto mandato al Cremlino. Una formalità, ma importante: un segnale a tutto il mondo, incluse le autocrazie che trattano con la Russia. Putin rimarrebbe inevitabilmente l’uomo cui riferirsi, ma senza più la legittimità internazionale, equiparato a un dittatore come Aleksandr Lukashenko. Proprio in queste settimane le pressioni internazionali sui «partner» di Mosca hanno già spinto diverse grandi banche turche e cinesi a cancellare la cooperazione con i clienti russi: lo hanno fatto per paura delle sanzioni, ma l’indignazione globale per la morte di Navalny può fornire una giustificazione anche morale.

Il problema vero della missione di Yulia Navalnaya non sarà, probabilmente, tanto quello di convincere un Occidente esterrefatto, quanto di immaginare un’azione politica in una Russia diventata una dittatura. L’opposizione russa, solitamente molto divisa, sembra aver accolto all’unanimità la guida, almeno morale, della vedova di Navalny. La sua rabbia, la gelida furia con la quale ha pronunciato «Putin ha ucciso mio marito» e promesso di portare il regime a rispondere dei suoi crimini, hanno ridato orgoglio a milioni di russi che con la morte di Navalny sentivano di avere perso ogni speranza. Sarà molto più difficile però proporre un programma di azione, in un sistema dove la libera espressione è limitatissima, scendere in piazza è impossibile, i candidati non allineati vengono espulsi dalle campagne elettorali e i prigionieri politici si contano ormai a migliaia. Il sogno di Navalny era una Russia europea cui si arrivava da una piazza che chiedeva elezioni libere, una rivoluzione pacifica oggi totalmente utopica. Oggi fare opposizione in Russia significa seguire l’esempio di Navalny, andando incontro a un martirio. La maggior parte dei leader e degli intellettuali che ispirato la protesta si trovano all’estero, e non possono certamente chiedere ai russi di ribellarsi rischiando la vita e la libertà. È evidente che Putin non ha il consenso che vanterà il 17 marzo, perché altrimenti non avrebbe avuto bisogno di arrestare anche le ragazze che portavano due garofani per commemorare il dissidente. Ma è altrettanto evidente che, per il momento, il regime del Cremlino può venire fatto vacillare più dalle sortite dei droni ucraini e dalle pressioni occidentali, che da una esplosione di scontento interno.