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La lotta al fumo? Questione di naso
Carlo Silini
Se ha ragione un curioso articolo online della rivista di divulgazione scientifica «Focus», uscito ventun’anni fa, nella seconda metà del XVI secolo la Turchia era retta da un Pascià talmente salutista che aveva proibito ai sudditi l’assunzione di tabacco e caffè. Stando alla fonte citata, fra le pene previste per i contravventori c’era addirittura il taglio del naso. Logico, quindi, che – per reazione uguale e contraria – alla morte del tiranno la popolazione tornasse a sorbire caffè e a fumare tabacco con l’eccessiva ingordigia di chi ne aveva patito troppo a lungo l’astinenza forzata. Pare che venga da qui il famoso modo di dire (velatamente razzista) «fumare come un turco».
Da lunedì scorso, tuttavia, onestà intellettuale imporrebbe di modificarlo con un – per noi – assai poco lusinghiero «fumare come uno svizzero». L’ultimo rapporto del Global Tobacco Index (realizzato dall’Associazione svizzera per la prevenzione del tabagismo), riferito all’anno in corso, ha collocato il nostro Paese all’89esimo posto su 90 in fatto di lassismo nella politica di lotta contro il fumo. Secondo gli autori dello studio, «la Svizzera risulta particolarmente esposta alle manipolazioni dell’industria del tabacco e della nicotina». Sarà che sul territorio elvetico ci sono le sedi principali di tre colossi del settore: Philip Morris International, British American Tobacco e Japan Tobacco International.
I nostri politici finiscono sulla graticola dei ricercatori perché, a loro avviso, subiscono supinamente le pressioni dell’industria del fumo nei dibattiti e nei processi legislativi sulla salute pubblica. Un’industria, denunciano, che «prende parte alle discussioni sulle misure di regolamentazione, esercita un influsso sulle persone chiamate a prendere le decisioni e si avvale di numerosi lobbisti per diffondere informazioni tendenziose e promuovere i propri interessi» (in palese contraddizione con la tutela della salute pubblica). Le accuse sono macigni. La Svizzera permetterebbe all’industria del tabacco e della nicotina di perseguire strategie che vanno dalla manipolazione politica all’occultamento degli effetti nocivi del fumo. Si evocano pure collaborazioni spurie e a dir poco inopportune: Il Politecnico federale di Zurigo, scrivono, starebbe conducendo uno studio sovvenzionato dal Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica e da Philip Morris (che, aggiungono i ricercatori, avrebbe inoltre regalato 35 mila franchi a due importanti partiti nazionali).
Le affermazioni di questa ricerca ci turbano: le autorità potrebbero fare molto di più per contrastare il fenomeno. È vero che sui pacchetti di sigarette in vendita troneggiano immagini terribili (denti neri, polmoni intaccati dal cancro ecc ecc), che dovrebbero scoraggiarne il consumo, ma allo stesso tempo il nostro è uno dei pochi Paesi a non avere ratificato la Convenzione quadro dell’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) sulla lotta al tabagismo.
Naturalmente viviamo in uno stato di diritto e sarebbe liberticida una politica proibizionista come quella del Pascià turco di cinque secoli fa (che poi ottiene effetti contrari). Ed è vero che ognuno è libero di farsi del male come preferisce: assumendo sostanze tossiche, consumando scatolate di farmaci, tracannando litri di alcol, pippando quotidianamente quantità industriali di sigarette e affini. Ma la nostra classe politica non può ignorare che in Svizzera il consumo di tabacco causa 9500 decessi l’anno, pari a 26 al giorno e al 14% di tutti i decessi (fonte: Ufficio federale della sanità pubblica).
Colpa di chi fuma? Solo in parte. Chissà quanti dei nostri rappresentati a Berna, se fossero vissuti nella Turchia del XVI secolo, avrebbero ancora un naso da soffiare, ora che si affacciano i primi sintomi dei raffreddori invernali.