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Dalla landamana Koller allo scrittore russo Solzenicyn
Ovidio Biffi
Sulla piazza centrale della capitale del Canton Appenzello interno due Landsgemeinde si sono svolte a distanza di cinquant’anni esattamente nello stesso giorno. La data di quest’anno ha segnato una tappa storica non solo per il piccolo semi-Cantone della Svizzera orientale, ma per i diritti della donna in Svizzera. Appenzello interno, già ultimo nell’introdurre nel 1991 il suffragio femminile, domenica 27 aprile ha infatti eletto alla carica di landamano una donna, Angela Koller. Di professione avvocata, la Koller, dopo anni nel legislativo, sarà dunque la prima donna presidente del Governo appenzellese, carica che ricoprirà ogni biennio come da prassi con un altro membro dell’Esecutivo. Mentre seguivo in tv i filmati della nomina, immagini e angoli della capitale del piccolo Cantone mi hanno ricordato la festosità, per molti versi uguale, di un’altra Landsgemeinde svoltasi sulla stessa piazza e con la stessa gente che applaudiva l’ospite d’onore. Quel ricordo, oltre a spingermi a scartabellare fra le mappette in cui custodisco vecchi articoli, mi convince a relegare in seconda linea la conquista raggiunta da Koller: sulla stessa piazza, nello stesso giorno 50 anni fa, veniva omaggiato Aleksandr Solzenicyn «come scrittore, ma soprattutto come colui che si è battuto contro il Male» (rivelò al mondo l'orrore dei Gulag), dirà alla folla il landamano di allora Raymond Broger. Solzenicyn pubblicò una lunga cronaca di quella domenica di fine aprile 1975, alcuni anni dopo su «Le Monde». Riletto oggi quel testo conserva una attualità che, a mio avviso, supera quella che il grande scrittore russo riuscì a prefigurare nel suo più famoso, ma anche più tenebroso discorso indirizzato tre anni dopo agli alunni dell’Università di Harvard e giustamente rievocato di recente per criticare i tentennamenti dell’Europa di fronte allo sciagurato cambiamento impresso dal presidente Donald Trump alla politica americana.
Il mio è un giudizio sicuramente condizionato dal fatto che l’analisi appenzellese di Solzenicyn è permeata di una visione «elvetica» della democrazia che si spinge sino al perentorio invito a imitare il piccolo semi-Cantone elvetico (ad un certo punto esclama: «Ah! se l’Europa potesse prestare orecchio a questo semi-Cantone di Appenzello; Ah! se i dirigenti delle grandi Nazioni potessero trarne profitto»). Domina, nell’articolo, un sottile e continuo confronto fra quello che lo scrittore vedeva compiersi sulla piazza e quanto il popolo russo era ancora costretto a vivere sotto la dittatura comunista: l’«uomo solo» appenzellese – il mitico landamano Broger, appena eletto e subito alle prese con il potere della Landsgemeinde che prima gli accetta un aumento delle imposte e poi respinge diverse sue proposte (tra le quali la naturalizzazione di una decina di cittadini italiani) – messo a confronto con l’«uomo solo» del Cremlino che invece non ha né controllori né oppositori. A colpirmi di più è un capitoletto dal titolo «La democrazia ha bisogno di mani forti».
Dopo l’elogio al discorso del landamano Broger, Solzenicyn evoca le vicissitudini politiche che il mondo stava vivendo in quel 1975 per affermare innanzitutto che non esiste più un’unica libertà, ma tante libertà particolari; poi che la violenza della nostra epoca, quando onestà e disciplina mancano, è una prova dell’impossibilità di garantire la libertà delle persone e dello Stato. Di conseguenza, pur rimanendo sovrano, come ancora è nelle nostre democrazie, il popolo non può essere presente quotidianamente a dirigere e correggere chi governa. D’altro canto, ammonisce lo scrittore russo, «il Governo non deve preoccuparsi di seguire gli sbandamenti e le fluttuazioni dei voti popolari; una volta eletto o rieletto, deve evitare ogni discorso che seduca gli elettori, ma progredire controcorrente se necessario (…) Una democrazia invertebrata che distribuisce diritti a tutti quanti degenera in democrazia servile». Impressionante infine la premonizione che Solzenicyn esprime prendendo spunto dall’attualità di quei giorni. Evocando il disastro degli Usa in Indocina, con il precipitoso abbandono del Vietnam e con il ritiro dalla Cambogia, si domanda: «Di fronte a questa tragedia, noi ci chiediamo: l’America rimarrà fedele ai suoi impegni verso l’Europa?». Mezzo secolo dopo lo stesso interrogativo rimane...