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Il cimitero di Aldo Rossi a Rozzano

/ 05/05/2025
Oliver Scharpf

Una nutria nuota nel Lambro meridionale noto anche come Lambro morto, Lambretto o Lambro merdario. A fianco, i rami degli alberi sulle sue sponde sono agghindati, forse per via di qualche piena in passato, da stracci esili che mi sembrano le opere di Marion Baruch. Inatteso spunta, non lontano dalla tangenziale ovest che lambisce questo angolo di Rozzano – toponimo malfamato a sud di Milano – di nome Ponte Sesto, uno sprazzo bucolico. Di un granaio deturpato in parte, resiste una gelosia in cotto, traforata a croce. Continuo il cammino nel nulla, a parte un fioraio. Un cesso dentro la roggia. In faccia, un tributo al cotto lombardo, sacrale per l’utilizzo nelle chiesuole romaniche e rurale per l’uso nei granai come appena visto, è il muro di cinta del cimitero. Oltretutto l’utilizzo del cotto è uno dei leitmotiv di Aldo Rossi (1931-1997), la cui fuga prospettica del portico lamellare al Gallaratese ho cercato di studiare un po’ e restituirvi come potevo l’autunno scorso. Tracce di cotto aldorossiano le troviamo nel monumento urbano a Zaandam, un museo a Maastricht, Orlando, Parigi, Berlino, Clermont-Ferrand, Parma, Moji, per esempio.

Altro motivo ricorrente, oltre alle torri giocose e melanconiche come uscite dai quadri di De Chirico, il tocco di turchese come nel cancello dove sbircio, tra le grate, un paesaggio prospettico da sogno. Sembra quasi, nonostante sia il progetto di ampliamento di un cimitero risalente al 1989, una delle sue scenografie operistiche. In fondo al viale di cipressi, una misteriosissima torretta-cappella ottagonale con colonne in cotto è il punto di fuga di estrema grazia che cattura lo sguardo. La pennellata onirica la dona il cielo che oggi pomeriggio verso fine aprile, corona il tempietto cimiteriale di nuvole fiamminghe che neanche al Rijksmuseum.

Sul tragitto per arrivare lì, nella parte orribile anni Sessanta, non posso non raccontarvi una tomba. Dentro una casetta tipo per uccellini, dietro una vetrinetta, ci sono: heineken finta, bottiglia di non so cosa a forma di pistola, rosa bianca finta, foto di ragazzo davanti a macchina tamarra con su scritto Il nostro boss. Fuori, sopra la ghiaietta artificiale blu, una macchina da corsa giocattolo. All’inizio del viale di cipressi di Leyland, la torre-cappella mostra sui lati, il colonnato cieco, consonanza con un hotel coevo in Giappone. Ai suoi fianchi, alle spalle dei floridi Cupressocyparis leylandii, finiscono di sfilare in prospettiva, gli edifici dei colombari color giallo crema al limone stemperato come vidi a Ventotene. Ricordano molto, per via del colonnato a lamelle del portico e le sue finestre a colombario del ballatoio, l’unità di abitazione al Gallaretese.

L’idea di questi colombari metafisici nasce con il celebratissimo cimitero di San Cataldo (1971-78) a Modena: immortalato dal commovente Luigi Ghirri e analizzato con minuzia da Diogo Seixas Lopes in Melancholy and Architecture on Aldo Rossi (2015). L’anatomia del paesaggio di Aldo Rossi, tra fuga del porticato e la geometria delle sue ombre con torre sullo sfondo, porta come sempre, ancora, dentro i quadri di De Chirico. Il faro di tutto è la torre ottagonale con un oculo e tre ordini di colonnato cieco in magnifico cotto tenue. Contando le sei nascoste dietro, trenta colonne in totale e in mezzo, sulla facciata, granito garbato. In ginocchio, guardo dentro nello spiraglio della porta semichiusa con un lucchetto, l’azzurro cielo delle mura. Alle sue spalle il campo appena arato che termina dove scorre, al di là degli alberi, il Lamber merdarius come lo chiama Bonvesin da la Riva in Le Meraviglie di Milano (1288).

In cielo le nuvole continuano il loro barocchismo ma anche la nuda terra, arata di fresco, ha la sua forza. Vado a chiedere a uno dei giardinieri se potrebbe aprire la torre di Aldo Rossi. Mi rimbalza a un suo collega che mi dice di chiedere al custode che mi accompagna alla cappella-torre-faro. In giro le panchine, i lampioni, come nella città dei vivi, sono segni di civiltà. «Luoghi di sosta non necessariamente tristi» le parole di Aldo Rossi al riguardo. Valeva la pena insistere e scomodare il custode che rivela «è aperta solo il giorno dei morti»: dentro un fiotto di luce penetra dal loculo e tutto l’azzurro cielo che ricopre l’interno è una vera sorpresa.