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Incontrare Trump al Dazio grande
Orazio Martinetti
Trump è ubiquo e colonizza le nostre giornate. Dormiamo con Trump, mangiamo con Trump, sogniamo Trump. Forse un giorno ci apparirà nelle vesti di arcigno gabelliere davanti al Dazio grande di Rodi-Fiesso, a chiedere chi sei, dove vai, cosa trasporti… Un salto indietro nei secoli, quando le comunicazioni erano difficoltose e i pedaggi da versare (pontatico ecc.) frammentati e vessatori. Solo nel corso dell’Ottocento si arriverà nei singoli Stati europei ad uniformare condizioni e tariffe («Zollvereine»), al fine di favorire gli scambi, perlomeno all’interno del perimetro nazionale. Rimanevano i dazi alle frontiere, che però non affluivano più nelle casse dei singoli Cantoni, ma nei forzieri della Confederazione. I costituenti regolarono la vertenza agli articoli 23 e 24 della Costituzione federale, promulgata il 12 settembre del 1848. «I dazj sono di competenza federale». E poi: «La Confederazione ha il diritto di far pagare ai confini svizzeri un dazio di entrata, di uscita e di transito». Il trasferimento degli introiti dal Cantone all’amministrazione centrale non piacque naturalmente al Ticino, che per ripicca non approvò la nuova Costituzione (e lo stesso fece con la revisione totale del 1874).
Il ritorno irruente dei dazi è visto dagli apostoli del libero commercio come fumo negli occhi. Vale la pena di ricordare che la Svizzera continua a far parte dell’«Associazione europea di libero scambio» (AELS), fondata nel 1960 in un’ottica di alternativa alla CEE. La stella polare rimaneva comunque il «free trade», ossia la riduzione progressiva di ogni barriera, palese od occulta, che potesse ostacolare le relazioni commerciali tra un Paese e l’altro. Dottrina liberista pura, riflesso commerciale dell’economia di mercato, un sistema basato sull’iniziativa dei singoli attori (capitalisti e mercanti), con una presenza minima dello Stato (funzione sussidiaria). Il passaggio alla globalizzazione, sul finire del secolo scorso, è stato rapido, come naturale conseguenza della caduta della cortina di ferro. Quindi niente più impedimenti alla libera circolazione di capitali, merci, servizi e persone tra i Paesi aderenti al GATT (Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio) e al WTO (Organizzazione mondiale del commercio). Chi commercia non guerreggia, si sosteneva, e per qualche anno la formula ha dato buoni risultati. Ma non tutto è andato com’era negli auspici. Sfruttando il differenziale nel costo del lavoro, molte aziende hanno deciso di trasferire i loro impianti nell’ex blocco orientale, oppure nelle fasce di recente industrializzazione dell’estremo Oriente. Il capitale finanziario si è costruito un universo tutto suo, sganciandosi dall’economia reale (parafrasando un celebre libro di Piero Sraffa, si potrebbe dire che ha prodotto denaro a mezzo di denaro). La dislocazione ha desertificato molti distretti dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti, facendo infuriare la «working class» espulsa dalle fabbriche. Un processo che ha scombinato anche le tradizionali appartenenze politiche, ingrossando le file delle formazioni di destra, le quali non hanno esitato a cavalcare lo scontento e il rancore a fini elettorali. La globalizzazione ha senz’altro giovato alle élites nomadi, la «superclass» che sorvola il territorio anziché mettervi radici, ma ha penalizzato i lavoratori stanziali cresciuti nell’era dello Stato-previdenza o «Welfare State».
Ora il rilancio dei dazi promette di ripristinare gli equilibri scardinati dal mercato mondiale. Per qualcuno è un’occasione provvidenziale, un’opportunità per riossigenare le economie nazionali, secondo criteri non dettati dai burocrati di Bruxelles. In questo clima sono rispuntati concetti come «autarchia», «protezionismo», «sovranità» (alimentare, energetica, farmaceutica), tutte vie che a prima vista paiono rassicurare un’opinione pubblica sempre più impaurita e disorientata. Il dazio, insomma, come soluzione per rimettere in moto gli ingranaggi arrugginiti delle singole economie, tramite l’iniezione di nuovi capitali e generosi investimenti in conoscenza e tecnologia. Il che potrebbe anche funzionare, se i flussi economici che vediamo quotidianamente all’opera non fossero strettamente interconnessi, sia sul piano merceologico, sia sul piano della forza-lavoro. Un’interdipendenza che rischia di vanificare anche le migliori intenzioni. Ma sicuramente il daziere Trump non mancherà di sorprenderci ad ogni nostro risveglio…