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Villa Necchi Campiglio

/ 21/04/2025
Oliver Scharpf

La prima volta che ne ho sentito parlare è stato in treno, incontrando per caso un decennio fa, la Hewitt. La mia professoressa preferita del liceo stava andando a Milano per i capelli e mi consigliò, estasiata da una recente visita, di andare a Villa Necchi Campiglio. Opera di Piero Portaluppi (1888-1967), architetto incontrato nelle nostre traiettorie milanesi in via Jan, la vidi nel 2019 un giorno d’estate. Ricordo la stella-finestra intagliata nel marmo. La villa abitata un tempo dalle sorelle Necchi – famiglia che ha fatto fortuna con la ghisa – e il marito di una delle due, si trova, nascosta tra gli alberi, in via Mozart. Proprio di fronte a Palazzo Fidia di cui vi ho riportato quindici giorni fa impressioni e storia.

Aperta al pubblico nel maggio 2008 come casa-museo, dopo essere stata donata al Fondo Ambiente Italiano da Gigina Necchi (1901-2001), nasce nel 1935. Restaurata con cura dal nipote di Portaluppi, la villa delle Gigine, come venivano chiamate le sorelle Necchi – Nedda (1900-1993) il nome della più riservata e timida che andava matta per i gatti e l’arte moderna – e il marito della Gigina, Angelo Campiglio (1891-1984) più noto a tutti come il Nene. L’antipasto è la portineria: sulla strada – in ceppo, granito, marmo, mimetizzandosi con il muro di cinta – sfuggevole avamposto attraverso il quale potete assaggiare la sobria eleganza della villa invisibile ai passanti. La mia piccola gioia vera però è rivedere la veranda-salotto d’angolo, a tutto vetro. Noto solo oggi, da vicino, la pergola a losanghe, classico motivo portaluppiano che ritorna, se non ricordo male, nei copricaloriferi e altrove. Dettaglio da niente, in confronto al cuore della villa dove si esprime, protetto dal verde lucido dei foglioni della magnolia secolare non ancora in fiore, tutto il lusso severo: l’entrata scenografica. Otto gradini semielissoidali in marmo carnico argentato, il cui eco si ritrova sopra, sulla pensilina della stessa forma dove sono inserite, a filo, otto luci. In mezzo, museale, la porta a vetri e ottone. È incorniciata da altro marmo più chiaro, in tinta con il ceppo bergamasco beige, la cui grana irregolare graziosissima parte lì accanto, incastonando le due finestrone vista piscina.

La piscina, astrale, con i bordi-panchina in travertino e il getto continuo stile fontana, varrebbe già da sola la pena, a maggior ragione in questi giorni di aprile, quando attorno ci sono papaveri multicolori. Così vicina all’entrata, acuisce ancora di più la scenografia spontanea della villa dove hanno girato gran parte di Io sono l’amore (2009) di Guadagnino: inguardabile per recitazione e trama, qualcosa forse si salva solo grazie a questa ambientazione, scelta anche per il farsesco-kitsch-trash The House of Gucci (2021) di Ridley Scott. Se non altro, entrambi i film, confermano l’entrata come punto cruciale. Nessuno dei due però inquadra il dettaglio assoluto, dove tutto si sdrammatizza: quasi in asse all’ingresso, su in cima, una piccola stella-finestra, richiamo anche al planetario Hoepli qui vicino. Naturale l’insistenza filmica per la hall, tutta in radica, sbaciucchiata ora qua e là dai riflessi: snodo successivo drammaturgico. Da dove lancio lo sguardo sulla balaustra, sempre in radica, della scala: l’intrico ritmico sta tra doppio meandro e zigzag.

Trotterello a sinistra e m’infilo nella veranda, «lo spazio più mitteleuropeo della villa» osservano nel librone Nelle case (2023) di Enrico Morteo e Orsina Simona Pierini. Il verde aprile fuori entra dentro e si somma ai vasi di piante nello spazio tra le vetrate, diventando così jardin d’hiver-soggiorno di un verde totale. In tinta, perdipiù, con il divano e l’intarsio a tartan del pavimento: marmo verde Roja e marmo verde Patrizia. La porta scorrevole in alpacca, forata geometricamente, impressiona e le fa compagnia il Puro folle o Parsifal (1930) in bronzo di Adolfo Wildt che schiaccia una gorgone con il Graal. Volo sulle scale su di sopra per ricercare la stella: trafitta di luce è in uno dei bagni. «Ci sono più bagni che camere» dice una a suo marito. Intercetto un’altra voce sul campo, guida del FAI: «I soldi veri li avevano le Necchi». Fuori cerco i lampi nel marmo carsico, nero fumo, che torna e continua nella zoccolatura. Trovo la meridiana, in faccia al tennis. Torno alla piscina dove nessuna delle Gigine, pare, si sia mai tuffata.