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Il miracolo della Gatta Cenerentola

/ 14/04/2025
Paolo Di Stefano

A chi non conosce Roberto De Simone (7+) non basterebbe dire che è stato l’autore dell’opera musicale italiana più importante del secondo Novecento: La Gatta Cenerentola, presentata nel 1976 al Festival di Spoleto con la Nuova Compagnia di Canto Popolare. Non basterebbe, perché De Simone, nato a Napoli nel 1933 e morto il 6 aprile scorso, è stato molte cose: compositore sì, regista sì, drammaturgo sì, ma anche arrangiatore di musica antica, studioso di tradizioni popolari, antropologo, etnologo, musicologo. Un «affascinante intreccio di filologia e creatività»: questo, come ha scritto Mauro Bersani, è stato il suo tratto principale. Rigore e fantasia. Era un Pasolini napoletano, provocatorio, arrabbiato, scomodo.

Dopo aver studiato pianoforte e composizione al conservatorio, si trovò a vivere anni durissimi, inclassificabile com’era dal punto di vista artistico e politico: cercò di cavarsela con la musica leggera e suonando nelle pizzerie, già da giovane aveva esperienza ed erudizione delle tradizioni antiche, e già allora era ostile all’oleografia meridionale, spaghetti-pizza-mandolino, quella promossa negli anni Cinquanta dalla politica del sindaco-armatore Achille Lauro.

De Simone decise di rimanere nella sua città a fare resistenza contro gli stereotipi: non una resistenza esplicitamente politica, ma piuttosto culturale e cioè politica nel senso più nobile. Sempre alla ricerca del punto di confluenza tra anima colta e anima popolare, tra l’arte degli artisti laureati e mondo magico-religioso, tra tradizioni barocche e modernità, tra linguaggi antichi, diletto e slang contemporanei delle province e delle periferie.

Dalle ricerche etnomusicali De Simone tirò fuori dal cappello, nel 1967, la prodigiosa Nuova Compagnia di Canto Popolare, un gruppo di giovani amici musicisti, tra cui Eugenio Bennato e Carlo D’Angiò (che nel 1976 andranno a formare i Musicanova con Teresa De Sio). Erano gli anni in cui Edoardo Bennato confessava di sentirsi un «Rinnegato» (titolo di una sua celebre canzone), perché suo fratello Eugenio lo accusava di ignorare la tradizione, anche se tradizione significava non fedeltà nostalgica al passato ma ripresa e rielaborazione.

La Gatta Cenerentola (8+ su 6: è uno degli spettacoli teatrali più incantevoli che abbia mai visto!) è stata un apice mirabolante che fondeva con la musica colta le tammurriate, le villanelle e le moresche popolari, mescolando, sempre in dialetto, ritualità liturgiche antiche, canti pagani di auspici alla fecondità della terra, invocazioni al sole, imprecazioni plebee di puttane e di lavandaie, con scambi di genere tra femmine e maschi; una miscela di solenne, terribile, comico e osceno in cui le varianti della narrazione orale contadina si intrecciavano con la favola secentesca inserita da Basile nel Cunto de li cunti. Dove la matrigna finiva con il collo spezzato dentro una cassapanca. Tutt’altra storia rispetto alla Cenerentola nota ai bambini.

Nella sua casa di Posillipo, piena di statue e statuette, oggetti sacri, santi e madonne ovunque, libri antichi e polverosi sugli scaffali e sulle poltrone, presepi sui tavoli, De Simone ti accoglieva come una specie di mago (sdentato), piccolo e diritto: tirava fuori dagli armadi sacchetti di plastica con dentro centinaia di nastri registrati dalla viva voce di vecchi narratori popolari e messi insieme per circa vent’anni di infaticabile cammino. Ne vennero fuori, per Einaudi, nel 1994, due volumi con 99 fiabe campane (tradotte dallo stesso De Simone), dove l’eros peccaminoso (e incestuoso) si intreccia ancora una volta con il riso sboccato, incursioni nell’oltretomba e apparizioni mortuarie. Sarebbe seguito, nel 1998, un aureo volume sul presepe popolare, in cui De Simone rivelava l’origine precristiana, notturna e infera, di figure e simbologie.

Uno degli obiettivi polemici preferiti da De Simone era, pasolinianamente, il perbenismo piccolo-borghese, in cui metteva anche Eduardo De Filippo e il manierismo che ne derivò: quel teatro che si esprimeva, secondo lui, in un dialetto adattato e naturalista, estraneo ai toni alti e a volte sguaiati, ai lazzi e alla platealità dei vecchi comici dell’arte. Resterebbe molto da aggiungere. E a chi non conosce De Simone non basta aver letto questo breve (e insufficiente) ritratto (auto-voto 4-).