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Stati Uniti: la risposta dei democratici
Paola Peduzzi
Nel giardino delle rose della Casa Bianca, annunciando i dazi americani a tutto il mondo, Donald Trump ha portato sul palco «i lavoratori» del settore metallurgico e automobilistico, quelli che, nel suo piano, avranno il massimo beneficio dal «Liberation day», il giorno in cui l’America si è fatta protezionista, ha «ucciso la globalizzazione» e si è vendicata di tutti i maltrattamenti globali che pensa di aver subito. Quegli stessi lavoratori, in particolare i sindacalisti dell’Automotive, qualche anno fa avevano accolto l’allora presidente Joe Biden, che nel 2020 avevano votato, come il loro protettore e salvatore, ma ora hanno riservato voti ed elogi a Trump. Gran parte del dibattito politico in corso nell’America più polarizzata di sempre si può riassumere in questa immagine e in questo scivolamento ingenuamente fiducioso della working class verso il trumpismo. Ed è da qui che il Partito democratico, nel suo abisso di impopolarità dopo la batosta elettorale di novembre, vuole – anzi deve – ripartire. Lo fa nelle piazze e lo fa nel palazzo.
Bernie Sanders, ex candidato presidenziale dei democratici ufficialmente senatore indipendente, ha già riempito palazzetti e comizi con il suo tour «Fighting oligarchy» iniziato a fine febbraio. Già nel 2017, quando Trump era stato eletto la prima volta, Sanders aveva iniziato una campagna di «bassa stagione», cioè in un periodo elettoralmente calmo, tra le presidenziali e le elezioni di metà mandato. L’obiettivo, allora come oggi, è proprio il voto del prossimo anno, quando al Congresso, al Senato e in alcuni Stati si potrà fare la prima valutazione del secondo mandato presidenziale di Trump. Sanders ha scelto il tema che gli è più chiaro e in cui è più forte, che è la lotta alla diseguaglianza, la difesa del lavoratore americano – anche il senatore è protezionista – e oggi la lotta agli oligarchi che hanno preso il potere grazie a Trump. Sanders non ha bisogno di rievocare la retorica di «Occupy Wall Street» o le tende nei parchi contro l’accentramento della ricchezza nelle mani dell’1% della popolazione Usa. I milionari e i miliardari sono al Governo, con mansioni più o meno definite ma con un grande potere.
C’è Elon Musk che sminuzza l’amministrazione pubblica a seconda delle sue priorità, ma anche il segretario al Commercio, Howard Lutnick, un grande appassionato di dazi come strumento di governo del mondo, è un ricco di Wall Street, come pure l’inviato speciale della pace nel mondo, Steve Witkoff, l’immobiliarista che interpreta alla perfezione l’approccio transazionale di Donald Trump. Sanders ha gioco facile contro questi oligarchi, riempie le piazze, ha rinsaldato il sodalizio politico con Alexandria Ocasio-Cortez, la più popolare e riconoscibile delle deputate del Partito democratico. La prima vittoria di questo movimento dal basso è arrivata in Wisconsin, dove si votava per eleggere un giudice della Corte suprema dello Stato. Musk ha investito 25 milioni di dollari per il candidato conservatore, più di tutti i donatori che sostenevano il candidato progressista messi assieme (tra cui George Soros), in una contesa dispendiosa e infine amara per l’imprenditore.
Sanders ha fatto tappa con il suo tour «Fight oligarchy» anche in Wisconsin, ha detto che ormai anche le elezioni sono in vendita, ha chiesto di mobilitarsi contro questo uso speculativo della politica a fini personali (la Corte suprema del Wisconsin deve decidere su Tesla, che chiede di togliere la legge che impone i concessionari per la vendita delle automobili, quindi impedisce la vendita diretta dei produttori ai consumatori). E alla fine, anche se è difficile stabilire un rapporto causa-effetto diretto, Musk è stato sconfitto. Nelle ore in cui si votava in Wisconsin (e anche in Florida), il senatore democratico Cory Booker ha tenuto un discorso di 25 ore e 5 minuti nell’aula del Senato. In questa maratona ha parlato della crisi dell’America, ha fatto riferimenti a un passato bipartisan, in cui lo scontro tra destra e sinistra era forte ma civile, in cui si poteva contribuire insieme a costruire il futuro del Paese, in cui c’era una condivisione di fondo su quel che è giusto e su quel che è sbagliato. Oggi non c’è modo di confrontarsi, i toni sono alti, i modi sono rudi, la visione dell’America diverge sempre di più. È per questo che bisogna combattere, riaffermare la propria presenza, ha detto Booker, invitando il suo partito a mobilitarsi, a fare rumore, a non lasciare che il trumpismo scardini il meccanismo democratico americano.