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Una, nessuna, centomila verità

/ 31/03/2025
Lina Bertola

Scambio di opinioni nell’ascensore di un supermercato: una signora, che si dice preoccupata per il fatto di essersi ritrovata nel carrello due kiwi involontariamente sfuggiti alla cassa elettronica, e due amiche che commentano la sua preoccupazione, ritenuta ingiustificata. «Tranquilla, non è un furto, solo una distrazione del tutto irrilevante per le finanze del negozio. Anzi, con i pochi soldi che ci ritroviamo sempre a fine mese, al limite ben venga anche un piccolo risparmio inatteso».

Dopo questo dialogo improvvisato e un po’ surreale, non è dato sapere se la signora, per superare il suo disagio, riconsegnerà i due kiwi ballerini.

Aveva proprio ragione il filosofo Cassirer: siamo animali simbolici, non viviamo a contatto con i fatti ma con i significati che diamo loro. E forse aveva ragione anche Nietzsche: non esistono fatti ma solo interpretazioni. Queste visioni da un lato mettono l’accento sulla nostra responsabilità nei confronti della realtà ma dall’altro aprono un’autostrada a derive relativistiche in cui va perso il significato stesso della verità. La cultura è da sempre, in un certo senso, un potente richiamo a tenerci in contatto con il suo irrinunciabile valore: il valore di una verità intesa come idea limite, come orizzonte di senso. Non come certezza, dogma, possesso ma, al contrario, come punto di riferimento del pensiero, orizzonte aperto del nostro continuo domandare, volto luminoso di quella inquietudine esistenziale, di cui già parlava Platone con la figura di Eros (Eros è brutto ma cerca la bellezza) e che con uno splendido fil rouge arriva fino al cielo stellato di Immanuel Kant.

La ricerca di un fondamento oggettivo della conoscenza su cui fondare la nostra comune appartenenza e i nostri legami, ha un significato etico non trascurabile. La verità, intesa come orizzonte di senso, è compagna di viaggio irrinunciabile nel nostro cammino personale: arreda il nostro mondo interiore e ci indica la strada verso ciò che è buono e giusto. Ce lo ricorda, fin dall’antichità, il sole platonico che, nella sua Repubblica, ci attende all’uscita della caverna. Restare in contatto con la verità così intesa ci impegna non solo a dire la verità, ma anche ad essere veri.

Questo valore è da sempre legato anche all’idea di bellezza, ad una bellezza che chiama: come altre volte ricordato, bello e chiamare (kalos, kalein) hanno la stessa radice. La bellezza insomma è un luminoso orizzonte etico. Vero, bello e buono, dicevano gli antichi kalos kai agathos. Watson e Crick, gli scopritori della doppia elica del DNA, pare che vedendola rappresentata dissero: «È troppo bella, dev’essere vera!».

La domanda di verità e di bellezza, radice della nostra umanità e della nostra convivenza, appare però sempre più in ostaggio di voci aggressive che ne offendono e ne tradiscono il senso, consegnandola al solo desiderio di dominio di poteri sempre più autoritari. Quando i fatti sono consegnati alle loro interpretazioni, non c’è più bisogno di rimanere in contatto con questa domanda, non c’è più bisogno di giustificare la verità di ciò che si dice.

Le derive politiche di una perdita di contatto con la verità, di una rinuncia all’impegno etico verso la realtà, sono oggi sotto gli occhi di tutti. Viviamo nell’epoca della post-verità, in cui la realtà dei fatti si afferma sulla base di sentimenti di adesione o di rifiuto emotivi. Di fronte a questa preoccupante deriva che sta minacciando le nostre democrazie, torno ad una recente splendida lettura. Nel suo Del vuoto. Sulla cultura e filosofia dell’Estremo Oriente, il filosofo Byung-Chul Han ci accoglie e ci ospita in un mondo altro, dentro un orizzonte totalmente straniero rispetto alla nostra visione della vita.

Da questo altrove, da questo mondo così lontano e straniero, qualcosa viene tuttavia a suggerirci come il desiderio di affermazione e l’impegno di soggetti responsabili, che sta al cuore dell’etica moderna, possa trasformarsi in desiderio di dominio: possesso e domino sull’Altro e sul mondo. «Più si indebolisce l’atto di riflettere – scrive il filosofo – più le cose risplendono chiare. In altre parole, a un calo di riflessione corrisponde un aumento di mondo. (…) Ritirarsi in un’assenza, dimenticarsi di sé…».

Questo sguardo-altro, così lontano dal nostro modo di abitare la vita, a me pare comunque un panorama da trattenere sullo sfondo del nostro vivere e convivere, un suggerimento silenzioso a prestare più attenzione alle derive della nostra cultura in cui il valore della presenza a sé stessi rischia di essere consegnato a soggetti che fanno del proprio rapporto con il mondo uno strumento di dominio.