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L’esercito tra autarchia e collaborazione
Orazio Martinetti
La notizia che l’Ucraina stia impiegando nelle sue operazioni belliche velivoli del tipo Mirage ha ridestato antichi fantasmi. Il lettore non più giovane ricorderà che questo aereo fu all’origine, nella prima metà degli anni Sessanta, di un «affare» che si trasformò presto in scandalo. Era accaduto che la Confederazione – con in prima fila il Dipartimento militare – aveva deliberato l’acquisto di un centinaio di Mirages III S, accompagnando l’ordinazione al costruttore francese Dassault con richieste specifiche che avevano gonfiato enormemente il preventivo di spesa. Tutto questo all’insaputa del Parlamento, che per fare chiarezza istituì per la prima volta nella sua storia una Commissione d’inchiesta. La faccenda investì i vertici dell’esercito, che si dimisero, e anche il titolare del Dipartimento della difesa, Paul Chaudet, che rimase al suo posto ma poi preferì non ripresentarsi alla rielezione. Fatto sta che il numero dei Mirages dai cento previsti scese a 57 e poi ancora a 36, tra cui alcuni destinati solo all’addestramento. Un disastro.
Correva l’anno 1964, si era in piena Guerra fredda e la paura di una catastrofe nucleare legata alla crisi di Cuba era ancora vivissima nella memoria del Paese. L’esercito, in quella fase, poteva contare su una larga fiducia, fondata sul racconto esperienziale della «generazione del servizio attivo». All’esposizione nazionale di Losanna il padiglione delle forze armate rispecchiava nella sua architettura aculeata l’indefettibile volontà di difesa del popolo svizzero. D’altronde tutti i giovani erano obbligati a prestare servizio, e chi obiettava finiva in prigione. L’obiezione di coscienza non era riconosciuta dai tribunali militari. In questo clima, ancora dominato dall’insicurezza, gli alti ufficiali si credevano onnipotenti, svincolati da ogni rendicontazione nei confronti del Parlamento e dell’opinione pubblica. D’altra parte molti deputati erano anche ufficiali, il che generava delle collusioni tra potere politico e militare. Procacciarsi apparecchi e sistemi d’arma che non fossero ferrivecchi dismessi dalle potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale ha sempre generato grattacapi e malcontento. Non potendo contare su un’industria bellica tecnologicamente all’avanguardia, la Svizzera ha sempre dovuto far capo a produttori esteri. Negli anni Cinquanta il principale fornitore fu il Regno Unito, con gli aerei Venom e Hunter, e con i carri armati Centurion. Fu poi il turno della Francia con i Mirages e da ultimo degli Stati Uniti con i Tigers (pattuglia acrobatica), gli F/A-18 della McDonnell Douglas e da ultimo con gli F-35 della Lockheed. Per i carri ci si rivolse invece alla germanica KraussMaffei, produttrice dei Leopard I e II. In nessuna occasione andò tutto liscio.
Ogni volta l’iter fu lungo e tormentato, e alla fine arrivava spesso il voto popolare. In una fase delicata giunse alle urne persino un’iniziativa che chiedeva l’abolizione dell’esercito (poi respinta, ma che accolse un buon 30% dei votanti). Non andò meglio con la sorveglianza dello spazio aereo e il sistema antiaereo «Florida» ubicato a Dübendorf, ritenuto poco efficace. Le recenti dimissioni a catena (del capo dell’esercito e del responsabile del servizio informazioni) hanno fatto emergere insufficienze e manovre poco trasparenti nel campo delle commesse. Questo Paese, un tempo armatissimo e fiero dei suoi figli in grigioverde, si è ritrovato d’un colpo decapitato e pieno di dubbi sulle sue reali capacità di difesa. Ora più voci reclamano una reazione vigorosa e un chiaro piano strategico, di cui dovrà farsi guida e portavoce il nuovo titolare del Dipartimento Martin Pfister. Ma anche qui non c’è unanimità di vedute. C’è chi, specie a sinistra, teme un’impennata della spesa a scapito della socialità e chi, specie a destra, perora un riarmo autoctono in solitaria, senza curarsi di quanto sta succedendo nell’Unione europea e nella Nato.
Certo è che la discussione non potrà non tener conto delle nuove posizioni assunte dagli Usa (finora beneficiarie di ordinazioni miliardarie, anche dalla Svizzera) e del riassetto geopolitico in atto un po’ ovunque. Bisognerà stabilire se vale la pena ricalcare i vecchi schemi nazionali, o se cercare una collaborazione più stretta con gli alleati occidentali. La prima via rischia di incrementare gli sprechi in una cornice di illusoria autarchia difensiva; la seconda potrebbe invece generare persino risparmi dentro un contesto di razionalizzazione della spesa.