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L’idea misericordiosa di Giuseppe Verdi

/ 10/03/2025
Oliver Scharpf

Sbucando dal metrò Buonarroti, la casa di riposo per musicisti squattrinati desiderata da Verdi, una domenica verso la fine di febbraio con presagio di primavera, entra subito in scena. «L’opera mia più bella» come la definì lo stesso Giuseppe Verdi (1813-1902) – lì davanti scanzonato in mezzo al traffico con la giacca svolazzante della scultura di Enrico Butti – si fa notare per la facciata neomedievale in cotto, dodici bifore, due trifore.

Tralasciamo l’architettura e la caccia ai dettagli, per una volta: il vero capolavoro è l’idea misericordiosa di Verdi, messa in atto, per scansare la gloria in vita, un anno dopo la sua morte. Aperta nel 1902 con tanto di cripta dove riposa il compositore della Traviata eccetera eccetera, lo spettacolo commovente sono i suoi ospiti immortalati nel film-documentario di Daniel Schmid, Il bacio di Tosca (1984). Una in particolare, con le sue risatine, i tic, la voce ancora lucente, scialli rosa, solitari in camera, posaceneri pieni, orecchini di perla, orgoglio, autoironia, è la soprano Sara Scuderi (1906-1987). Per anni nome di grido alla Scala, è stata ritratta anche qualche anno prima, il fuoco sacro negli occhi, in dieci scatti di Eric Bachmann trovati tra le pagine di Casa Verdi (2016). Foto dissepolte, per questo libro, accompagnate da frammenti di giornale sugli acuti dei tenori e così via e le parole – apparse in un fotoreportaggio primaverile uscito sulla «Schweizer Illustrierte» nel 1981 – di Christian Kämmerling su questo posto «dove gli eredi di Verdi possono invecchiare graziosamente». Luogo etereo, eternizzato in una scena madre di Ascolto il tuo cuore, città (1944) di Alberto Savinio che vi racconto dopo.

Ora, a passi melodici, vado verso la cripta in fondo al cortile interno, unico angolo di casa Verdi visitabile sempre, senza appuntamenti né niente. Mi volto e acciuffo i mattoni che imitano i tasti di pianoforte. L’architetto è Camillo Boito (1836-1914), fratello del librettista Arrigo che per Verdi scrive il Falstaff, l’Otello, e scrittore scapigliato lui stesso: da una delle Nuove storielle vane (1883), Senso, è tratto il film di Visconti. Invano cerco volti alle finestre, sento però frammenti d’opera. Sparsi nel cortile, limoni in vasi di terracotta con monogramma GV. A fianco della cripta, due palme del Giappone. Davanti, vasi tondi con viole del pensiero. E il pensiero vola, va da sé, al coro verdiano. Esuberante la cripta dove riposa Verdi, accanto all’amata Giuseppina Strepponi. Pianse ed amò per tutti, si legge, a caratteri d’oro in rilievo, sul marmo nero screziato di bianco. Sopra il verso di D’Annunzio, mosaici nauseabondi. Un anturio sincero, almeno, tiene compagnia al «buon padre melodico» come lo chiama Savinio. Seduto sulla panchina, assaporando il preludio vago ma forte di primavera, capto ancora voci d’opera nelle loro stanzette piene di reliquie. «Non si può rimanere sulle panchine» mi dice la portinaia. Tanto è ora di andarmene. In tempo leggo che il mercoledì dalle 14 alle 18 è possibile visitare casa Verdi con uno dei volontari del Touring Club.

Torno mercoledì e sbucando da un’altra uscita del metrò, su Viale Monte Rosa, scorgo la statua pallida di uno in giardino con le gambe accavallate: è il Boito librettista. La guida del Touring è una donna minuta, parla piano ma imperterrita e con quel tono vacuo da libro stampato mi racconta la rava e la fava sul «Maestro». In cima alle scale, il sontuoso salone dei concerti mostra un tocco di moresco che esplode nella Sala Araba dove troneggia il pianoforte a coda Érard di Verdi. Il cui ritratto di Boldini, senza foulard né cilindro come nel suo più famoso ritratto conservato alla Galleria nazionale di Roma, ma stesso sguardo stanco e fiero, vedo nella parte museale. Tutti come Verdi, l’ampia giacca nera a doppiopetto e così via, andavano in giro vestiti i sessantacinque vecchiardi al verde un tempo acclamati sui più prestigiosi palcoscenici al mondo, fino agli anni quaranta. Epoca in cui Alberto Savinio li vide e riportò incredulo la scena e chiedendo, al custode, come andavano vestite le donne. Come Giuseppina Strepponi, fornisce tutto la Rinascente. Sento dare i numeri.

Mi smarco veloce dalla guida bla bla bla. In uno spiraglio di vetro non smerigliato, appoggio l’occhio per sbirciare le cantanti d’opera ritirate qui con stile, giocare a tombola