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La modesta ambizione dello scrittore povero
Giulio Mozzi
Suona il telefono. Rispondo.
«Buongiorno signor Mozzi, parlo con il signor Mozzi?», dice una voce maschile fioca.
«Sono Giulio Mozzi», dico. «Con chi ho il piacere di parlare?».
«Sono uno scrittore povero», dice la voce maschile fioca.
«Così povero da non avere neanche un nome?», dico.
«Sono povero perché non mi sono ancora fatto un nome», dice la voce maschile fioca.
«Ma un nome all’anagrafe ce l’avrà», dico.
«Ecco, signor Mozzi», dice la voce maschile fioca, «anche lei è come tutti, signor Mozzi».
«Come tutti chi?», dico.
«Come tutti quelli che sono interessati al nome più che all’opera», dice la voce maschile fioca.
«Lei ha scritto un’opera?», dico.
«No», dice la voce maschile fioca. «Sono uno scrittore povero, così povero da non avere nemmeno scritto un’opera».
«Se lei non ha scritto un’opera», dico, «non è uno scrittore».
«Sono uno scrittore povero», dice la voce maschile fioca, «così povero che non sono nemmeno uno scrittore».
«E quindi», dico, «in che cosa ritiene che potrei esserle utile?».
«Soldi», dice la voce maschile fioca.
«Soldi?», dico.
«Signor Mozzi», dice la voce maschile fioca, «di che cosa crede che abbia bisogno un povero, signor Mozzi, se non di soldi?».
«E perché dovrei farle avere dei soldi?», dico.
«Perché io possa scrivere un’opera», dice la voce maschile fioca, «e così diventi uno scrittore».
«Ma, almeno, un’idea di opera, in mente, ce l’ha?», dico.
«No», dice la voce maschile fioca.
«Nemmeno un’intuizione?», dico.
«Gliel’ho detto, signor Mozzi», dice la voce maschile fioca, «sono uno scrittore povero, signor Mozzi».
«Allora, signor scrittore povero», dico, «mettiamo le cose in chiaro. Lei avrà sentito dire che lavoro nell’editoria, che faccio scouting, che porto alla pubblicazione nuovi talenti, e così via».
«Ho sentito che lei aiuta gli scrittori poveri, signor Mozzi», dice la voce maschile fioca.
«Ma io come faccio», dico, «a far arrivare dei soldi a una persona che vuole essere scrittore ma non ha neanche un’idea di un’opera da scrivere?».
«Lei è crudele, signor Mozzi», dice la voce maschile fioca.
«Lei non ha nulla da offrire», dico.
«Perché sono povero, signor Mozzi!», dice la voce maschile fioca, ora un pochino meno fioca, «Ma io voglio smettere di essere povero!»
«E che cosa vuole essere?», dico.
«Io voglio essere benestante!», dice la voce maschile, ora vigorosa, «Voglio essere uno scrittore benestante!».
«E perché non ricco, allora?», dico.
«Lei non ha il senso della misura», dice la voce maschile, ora indignata.
«Io, non ho il senso della misura?», dico.
«Prima di diventare ricchi», dice la voce maschile, ora imperiosa, «bisogna diventare benestanti! E poi, ma solo poi, ricchi! E poi…».
«E poi?», dico.
«E poi nababbi!», dice la voce maschile, ora urlando. «Perché è questo che voglio diventare! Voglio diventare uno scrittore nababbo!».
«Si calmi», dico.
«E lei mi deve aiutare!», dice la voce maschile, ora a squarciagola. «Lei deve procacciarmi dei contratti principeschi!».
«E, mi dica», dico, «quando avrà firmato un contratto principesco, immagino che le verrà in mente anche una storia da scrivere».
«Signor Mozzi», dice la voce maschile, ora di nuovo fioca, «quando avrò firmato un contratto principesco scriverò un’opera, e l’oggetto della mia opera sarà la vita dello scrittore povero».
«Mi sembra un colpo di genio», dico.
«La vita dello scrittore povero, signor Mozzi», dice la voce maschile fioca, «con tutti i suoi poveri drammi, le sue povere tristezze, i suoi poveri digiuni, la sua povera aridità, la sua povera povertà».
«Sarà un successo planetario», dico.
«Ecco, signor Mozzi», dice la voce maschile fioca, «vedo che finalmente c’è arrivato. Se ha una penna sottomano posso dettarle l’Iban».