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La festa del silenzio
Lina Bertola
Dopo il consueto rituale dei commenti alle parole dell’anno, considerate dai ricercatori lo specchio di «tradizioni discorsive prevalenti» (in Ticino non binario, allerta meteo, nomofobia), è arrivata la bella scelta dell’Istituto Treccani: la parola del 2024 è rispetto. In questo caso non si tratta certo una rilevazione fattuale del prevalente modo di relazionarci all’altro; al contrario, la parola scelta a me pare voglia opportunamente indicare un problema e il bisogno di superarlo, riconoscendo il valore irrinunciabile, appunto, di ciò che questa parola evoca.
Anch’io vorrei offrire ai miei lettori una parola augurale per il nuovo anno, un bouquet simbolico, con un profumo molto speciale: il profumo del silenzio. Il mio augurio è quello di coltivare il desiderio di mettersi in ascolto del silenzio, perché anche il silenzio ci parla.
Lungi da me il trito moralismo di chi demonizza il costante rumore di fondo che ci perseguita nelle nostre giornate, nei supermercati, nei ristoranti, perfino negli ascensori, o il frastuono che ci è arrivato addosso ovunque negli ultimi giorni dell’anno. Proprio il navigare a vista, a volte anche faticoso, tra voci gioiose e spensierate, urlate nei brindisi di Capodanno, ha fatto nascere in me una domanda. Per vivere la gioia della festa, mi sono chiesta, è proprio necessario lasciarsi avvolgere dal fragore di suoni che si spandono nell’aria, spesso in solitaria, e che prendono il volo nel cielo freddo di dicembre senza sapere se mai qualcuno li ascolterà? Come dire: la festa deve sempre essere accompagnata dall’allegro frastuono di un continuo gioioso agitarsi?
Per tentare di rispondere, o meglio per attraversare questo interrogativo, ho invitato un ospite assente; ho invitato il silenzio a parlarmi di sé. Nel liberarsi di parole urlate nella gioia, pur in un improbabile scambio dei loro doni, è ben visibile una forma preziosa di libertà, ovvero la libertà di dire, di esprimere il proprio pensare e soprattutto il proprio sentire. Così, in controluce rispetto a questo aspetto liberatorio del fare festa, il primo volto del silenzio che mi è venuto incontro è stato quello opaco di un silenzio che è solo un tacere, o meglio un mettere a tacere. Un silenzio senza voce, che inghiotte ogni voce.
Ma c’è un altro volto del silenzio che mi piace immaginare abbracciato alla gioia e chissà, forse anche alla festa. Non questo silenzio punitivo e repressivo, da sempre arma prediletta di ogni forma di potere per mettere a tacere l’altro e la sua diversità. Arma del potere della cultura ufficiale che per secoli ha soffocato e rimosso il sapere delle donne e oggi si preoccupa di ripulire pagine luminose della letteratura e dell’arte in nome del politicamente corretto, ma pure arma delle derive autoritarie che stanno mettendo a rischio le nostre democrazie. Il silenzio in cui immagino possibile incontrare il sentimento della gioia non è certo questo macigno senza voce.
Al contrario, è un silenzio che parla, pieno di voci che ci vengono incontro prima di ogni parola, un silenzio che sa rendere le parole davvero nostre. Sono voci ancora indicibili di un altrove che è già qui, sorgente delicata di molti vissuti inattesi. È un silenzio generativo che ci chiede di riconoscere e di accogliere il suo linguaggio, di ospitarlo nel cuore. Sostare in questo silenzio ci tiene lontani dal peso di tutte quelle parole che ci avvolgono dentro pensieri già pensati, spesso resi prigionieri di un rumore di fondo familiare.
Questo silenzio generativo è un’esperienza preziosa di resistenza e di trasformazione perché ci trattiene sulla soglia del nostro esserci e ci invita a navigare leggeri, nella purezza di una domanda di senso che nasce in quel momento, solo per noi. È il silenzio del raccoglimento, del dubbio e della sospensione di giudizio. È la novità indicibile da cui possono nascere parole altre. È la novità di ciascuno da cui può sorgere una comprensione più autentica.
«Se la parola che pronuncio non si radica in un silenzio di cui sono capace, allora non è mai davvero mia», scrive la filosofa Luce Iragaray. E aggiunge: «questo silenzio di cui sono capace è anche la prima parola di accoglienza verso l’altro».
La parola che nasce dal silenzio può fondare altri mondi, moltiplicare i mondi possibili e la possibilità di condividerli dentro legami autentici. È in questa novità, in questo pensare e sentire nascente, in questo cominciamento, che si esprime l’essenza dell’uomo, per dirla con Hannah Arendt. Ed è qui che diventa possibile l’incontro con sé stessi e con l’altro: una festa, la festa del silenzio.