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Nsaku Ne Vunda
Melania Mazzucco
Paolo V ordinò all’archiatra pontificio, il suo medico, e allo stuolo dei suoi assistenti, di curare l’africano, e di guarirlo, se vi riuscivano. Ma i rimedi erano tardivi: il paziente peggiorò. Il papa – che aveva fatto allestire sontuosi apparati per il giorno dell’ambasceria, come del resto si usava fare – si rese conto che non vi sarebbe mai stato un ricevimento ufficiale, e si recò a fargli visita al capezzale.
Così almeno racconta l’affresco omonimo, dipinto qualche tempo dopo nel corridoio del Palazzo Vaticano che conduce alla Cappella Sistina. In esso, Paolo V appare nell’atto di benedire l’uomo, seduto in un letto a baldacchino, circondato da ricchi tendaggi verdi. L’ambasciatore africano non indossa alcun ornamento, né segno distintivo del suo rango. Vestito con una semplice camicia da letto bianca, tiene le mani giunte sul petto e rivolge al papa lo sguardo pacificato di un devoto cristiano sul punto di transitare in Paradiso.
La scena forse è immaginaria (esiste un’iconografia precisa per i sovrani che fanno a un loro sottoposto infermo l’onore di visitarlo), ma il ritratto è accurato: Nsaku Ne Vunda, stempiato, ha la barbetta e i baffi a punta impressi nella maschera funebre. Chissà se davvero Paolo V andò a rendergli visita e ascoltò dalle labbra del moribondo le richieste del re del Kongo.
Don Antonio Emanuel si spense appena tre giorni dopo il sospirato arrivo, il 3 gennaio del 1608: la memoria popolare però la colloca nella notte dell’Epifania, probabilmente per identificarlo con Baldassarre, il re magio che la tradizione voleva nero. Gli arredi preparati per la festa divennero apparati da lutto.
Le pompe funebri dell’ambasciatore africano furono talmente sontuose che solerti cronisti ne pubblicarono il resoconto. L’opuscolo circolava nelle librerie, e sui carretti degli ambulanti. Tutti i romani seppero del principe africano inviato dal suo re e venuto a morire in Vaticano, il luogo su cui brillava la stella cometa…
Qualunque fosse il messaggio che l’ambasciatore gli aveva recapitato, il pur autorevole e autoritario Paolo V non riuscì a esaudire la richiesta. Vide però il monumento, che aveva commissionato già all’indomani della morte di don Antonio Emanuel allo scultore Francesco Caporale, ex collaboratore di Maderno.
L’artista lavorò alacremente, e a dicembre aveva già concluso l’opera, tanto che incassò i 95 scudi pattuiti. Ma solo nel 1629 il busto di «don Antonio» in porfido nero fu collocato in chiesa. Impressionante per la resa realistica ed eleganza, per molto tempo fu attribuito ingiustamente al più quotato Gian Lorenzo Bernini.
Si trova tuttora nel battistero della basilica di Santa Maria Maggiore (credo sia l’unico nero libero a comparire in una chiesa: nelle case di Dio, di solito i neri figurano come schiavetti paggi o peggio: telamoni, a supportare i monumenti funebri dei loro sterminatori). Il mantello e la faretra (ornamento bellico da guerriero che forse il principe religioso aveva portato in dono) sono in marmo giallo, gli occhi in marmo bianco. Di un candore accecante, spiccano nel volto nerissimo e nella penombra della chiesa.
Ma i portoghesi non avevano interesse a evangelizzare i popoli africani: come pagani incivili senz’anima potevano trattarli come cose, comprare e vendere, e trasportare schiavi, in catene, in America. Opposero resistenza ai piani del papa, che non riuscì a istituire la Prefettura Apostolica del Congo, autonoma dal Portogallo: lo fece, nel 1622, il suo successore, l’anno dopo la morte di Paolo V, e la affidò ai cappuccini italiani.
Intanto però il regno, depauperato di uomini e risorse, stava andando in rovina. E alla fine del Seicento comprendeva ormai solo la provincia di Zaire, oggi in Angola, dove sorgeva la sua capitale Mbanza Kongo. Così la parabola dello sfortunato «Nigrita» (in questo modo, con familiarità priva di intenti offensivi, lo avevano soprannominato i romani) racconta una storia alternativa dei rapporti fra europei e africani, prima che si fondassero per sempre sul colonialismo e sulla schiavitù: qualcosa che poteva essere, ma non è stato. Per questo gli occhi bianchissimi dell’ambasciatore ci interrogano ancora.