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Saluti dalla terra dei narcisisti

/ 06/01/2025
Benedicta Froelich

C’è stato un tempo in cui, prima dell’avvento di internet e delle comunicazioni istantanee, le ben note cartoline turistiche costituivano un vero e proprio status symbol: era infatti a dir poco impensabile andare in vacanza senza spedirne almeno una alle persone care, a riprova del fatto che si era pensato a loro – e, soprattutto, ci si era recati in qualche luogo più o meno esotico.

In effetti, la scomparsa della cartolina come elemento fondamentale della cultura popolare del diciannovesimo e ventesimo secolo ha lasciato il segno, forse in modo più profondo di quel che si pensi; soprattutto perché con la sua sparizione è sembrato venire a mancare anche il mezzo per eccellenza tramite il quale era possibile «farsi belli» agli occhi di parenti e amici fornendo una prova tangibile delle proprie, più o meno invidiabili, sortite turistiche.

Così, adesso che abbiamo appena superato la cosiddetta holiday season d’inizio anno – il periodo in cui treni, voli e traghetti sono presi d’assalto e il costo dei biglietti si fa vertiginoso – diviene sempre più evidente come il ruolo della cartolina in quanto espressione del «narcisismo turistico» sia stato ormai usurpato dal moderno ripiego rappresentato dal cosiddetto post: ovvero, l’infinita quantità di video, foto e siparietti vari che, catturati con lo smartphone, invadono Facebook, Instagram e TikTok per la gioia di quei perfetti sconosciuti noti come follower.

E forse proprio a causa del fatto che è coincisa con il passaggio dal ristretto pubblico di amici e famigliari al seguito potenzialmente universale dei social network, tale transizione ha visto lo sviluppo di un fenomeno precedentemente inedito: quello della «vacanza a tutti i costi», esemplificato dalle legioni di persone oggi disposte a indebitarsi e richiedere ingenti prestiti bancari pur di potersi permettere un viaggio, possibilmente di respiro intercontinentale.

Come se, pure in un momento di crisi economica quale il nostro, la priorità risiedesse comunque nell’apparire – ovvero, poter dimostrare di essersi recati in una località ambita, sebbene a costo di ingenti sacrifici (dei quali, naturalmente, nessuno verrà mai a conoscenza). In altre parole, l’era dello smartphone sembra aver demandato il nostro status sociale ai selfie condivisi online o via whatsapp, secondo un azzardato rituale che rischia di condurre molti alla bancarotta.

Ma allora, quale forma di perversa vanità ci costringe a pregiudicare il nostro immediato futuro solo per ottenere un’istantanea gratificazione nel presente? Cosa ci spinge a comportarci alla stregua di bambini che, incapaci di valutare i potenziali rischi di una scelta, scelgono di agire solo nel qui e ora, quasi il domani non esistesse?

Certo, la risposta più semplice suggerirebbe che qualsiasi cosa possa interrompere la monotonia della routine quotidiana è ben accetta, al punto da valere l’indebitamento; eppure, la questione è più complessa, nonché legata ad alcuni dei nuovi «valori» che la nostra società ha ormai assorbito e fatto propri.

Basta infatti osservare le gesta d’innumerevoli influencer e personaggi più o meno noti al grande pubblico per rendersi conto di quanto sia oggi importante avere (o, almeno, ritenere di avere) qualcosa di notevole da raccontare a chiunque sia disposto ad ascoltare; questo perché il semplice, antico desiderio di condividere un qualche moto dell’anima o anelito personale – ad esempio, una lettura che ha lasciato il segno, o un’opinione personale sui fatti del giorno – si è ormai fatto obsoleto e irrilevante.

Sembra invece divenuto cruciale, al fine di lasciare il segno nell’altrui memoria, aver vissuto in prima persona qualche cosiddetta «grande avventura», non importa quanto risaputa o artefatta.

Il che costituisce un punto di vista pericoloso, poiché figlio di una società che ci ha convinto di come il nostro valore si misuri con l’intensità delle nostre vite – con ciò che possiamo testimoniare di aver vissuto, anziché con quello che, nelle profondità della nostra anima, abbiamo davvero provato; in un gioco di specchi contraddistinto dalla fatuità e impermanenza di imprese più o meno enfatiche, anziché dai nostri veri e più autentici sentimenti ed emozioni.