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Il soffitto di Tiepolo

/ 30/12/2024
Oliver Scharpf

Da quattro finestre illuminate al primo piano, catturo già da giù nel cortile, alle sedici e trentanove di venerdì tredici dicembre, a sorpresa, piccole porzioni di stupore tiepolesco. Putti in volo, il volto di Venere, nubi, una proboscide: è la prima magia di Giambattista Tiepolo (1696-1770), pittore veneto etereo-fantastico ingaggiato dal marchese Giorgio Antonio detto anche Antonio Giorgio Clerici (1715-1768) che dilapida tutto per questo palazzo. Dal 1942 sede dell’Istituto per gli studi di politica internazionale, il seicentesco Palazzo Clerici è visitabile un pomeriggio al mese, su prenotazione, per via del vasto soffitto affrescato da Tiepolo nel 1741. È così, un bel gruppo è riunito qui nel cortile d’onore, al cinque di via Clerici, in attesa di puntare gli occhi sul soffitto di Tiepolo, «esempio estremo di scioltezza taoista nell’arte» come lo pennella Calasso, Il rosa Tiepolo (2006). Cinque minuti prima dell’ora del tè, naso all’insù, appena entrati nel salone siamo travolti dall’incanto di questo soffitto illusionisticamente come sfondato dove esplode un cielo mirabolante animato da divinità sulle nuvole, nereidi, putti, animali, uomini, un pipistrello, là, accanto a Proserpina. Nonostante la guida non sia la solita guida che cerca di fare la simpaticona con battute posse ripetute ogni volta né parla saccente come un libro stampato, vado in fuga. Calamitato dai dettagli di questo sterminato divertimento pittorico che corre per una ventina di metri, illuminato dai lampadari in cristallo. Ai margini del dipinto intitolato La corsa del carro del sole che appare nella Nuova guida di Milano per gli amanti delle belle arti e delle sacre, e profane antichità milanesi (1787) di Carlo Bianconi dove ieri notte ho afferrato che «Venere resta in congiunzione a Saturno», non lontano dai due satiri, agguanto con lo sguardo una luna personificata o un pesceluna. Un fan-ciullo nudo capellone sdraiato a pancia in giù, come se fosse sdraiato sul cornicione dorato della boiserie rococò, stregato da tutto lo spettacolo del cielo all’alba popolato dalla tribù tiepolesca volante, abbraccia un pesce da una parte e dall’altra, il pesceluna immaginario o luna-personaggio con sguardo pure rivolto all’insù. Qualche passo, seguendo la traiettoria del suo sguardo e s’incontra un remo che identifica, dicono, una divinità fluviale personificata da un vecchio inghirlandato d’edera con un barbone. Ed ecco, lassù, Venere a cavallo di una nube grigio-azzurra attorniata da amorini in volo con ali trasparenti quasi da insetto, uno dei quale acchiappa una colomba a testa in giù. Da capogiro questa scena del rapimento di Venere sul carro di Saturno, collocata magistralmente da Tiepolo in modo da mostrarne un frammento a chi vede dove deve, già dal cortile, come assaggio. «Venere non è la più rapinosa fra le bionde-fulve di Tiepolo» sostiene Calasso nel libro citato prima dal titolo trovato leggendo Proust. Un rosa antico, confetto, di fiori di ciliegio al mattino. Come il colore dell’ampia gonna svolazzante della bionda misteriosa – molto più rapinosa di Venere, almeno per me – con capelli raccolti, lì ai piedi del nuvolone di Venere e Saturno. Noto anche come Crono, Dio del Tempo, ci volta la schiena muscolosa, i capelli bianchi spettinati sembrano di un vecchietto spaurito per strada mentre le ali maestose metallico-azzurrine, sono d’aquila. La falce è rovesciata, la lama poggia su un drappo indaco inutile se non per fare scena. Idem per la stoffa in aria color rosso robbia annacquato. Mercurio nuota nel cielo sopra il carro apollineo del sole che sorge. Attraverso, da una sponda all’altra – incontrando, senza tregua, con il torcicollo, nel pulviscolo rugginoso-dorato e tra squarci azzurrastri tenui, sileni sbronzi, cani da caccia, maghi-filosofi orientali – la volta del lungo salone-galleria. Per raggiungere un delfino, tra ninfe incoronate di coralli. Il turbinare senza meta dei personaggi come coreografie di balletti contemporanei, detta allo spettatore un andirivieni. Acciuffo un gufo, uno spartito musicale che ci cade in testa, l’elefante che simboleggia l’Africa, l’orologio che corrisponde a quello del palazzo, sul tetto. Un gioco tra reale e fantastico che culmina con il nano dipinto, ritratto del nano dei Clerici che si aggirava qui: tiene con una catena vera di ferro, intarsiata nel legno, una scimmia.