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La Braidense
Oliver Scharpf
Nella sala gesuitica, sei anni fa, ricordo un pomeriggio intero a consultare libri introvabili sulle Ponziane per cercare le prove di come Ponza sia davvero l’isola omerica della maga Circe. Fondata nel 1770 dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria (1717-1780) su consiglio del principe Kaunitz, grazie ai ventiquattromila libri del conte bibliofilo Pertusati, tra lampadari di cristallo, scaffalature altissime in noce, soffitti a volta a vela, la biblioteca Braidense è un posto genere mirabilia che sarebbe valsa la pena, mi sono detto, un giorno o l’altro, tornarci a studiarlo. Riemersa rileggendo La vita agra (1962) di Luciano Bianciardi – già incontrato per strada parlando della Montecatini – viene raccontata per le prime sei pagine accendendo l’immaginazione attraverso timori, ritratti di imperatrici paffute, ricerche, mutilati alle mani, nani, guerci. Infatti trae il nome – come tutto il quartiere di Brera – dalla Braida del Guercio. La braida, campo suburbano di tale Adalgiso o Algisio detto il Guercio, donata all’ordine degli Umiliati, passa poi di mano ai Gesuiti e oggi è il palazzo di Brera che ospita anche l’Accademia di Belle Arti e la Pinacoteca.
Attraversare il cortile d’onore, per il quale Stendhal – stracitato per Milano e più milanese dei milanesi perché sulla tomba a Parigi volle scolpito «milanese» – stravedeva, apre già lo spirito. Mica per Napoleone nudo in bronzo guardato da altri spiriti illustri in marmo, ma per quello che coglie Savinio in Ascolto il tuo cuore, città (1944), libro-guida raffinatissimo già incrociato per via sempre del palazzo d’acqua rappresa di Gio Ponti. Proprio partendo da questo cortile di Brera, Savinio rivela: «Il cortile, qualunque cortile, è favorevole al meditare, perché nasconde l’orizzonte e mostra soltanto il profondo del cielo». Questo sprazzo di camminata esoterica spesso animata, oltre che dal Napoleone Bonaparte come Marte pacificatore (1808) di Canova, da figure incredule in mezzo – spaesati, storditi per una volta nel loro viaggio, vacanza, o giornata – s’incupisce poi imboccando il corridoio scuro, in fondo, a sinistra. Sensazioni di artisti falliti, progetti spiaggiati, persone perse, sogni infranti di anime passate qui, scheletri degli Umiliati dissepolti dagli studenti buontemponi: un teschio sul taxi è tutta una storia che non ho tempo di raccontarvi, purtroppo, perché mi sono già distratto abbastanza.
Sessantasei gradoni in pietra portano su davanti all’entrata in legno della Biblioteca, Nazionale come le sigarette di una volta. Chissà quante, spente, come era indicato per i sigari, nella vaschetta di bronzo appesa fino a mezzo secolo fa o come il cerino posato con cura lì quando l’io narrante della Vita agra esce dalla biblioteca e si accende una Nazionale. Nell’atrio, dentro, ecco davanti la sala gesuitica del mio pomeriggio di primavera appena prima di partire per Ponza. Mentre buttando l’occhio a destra, nella sala Teresiana, rapiscono lo sguardo i due lampadari a goccia in cristallo di Boemia. Luminosi resti, ricomposti, dei numerosi lampadari del salone delle Cariatidi di palazzo Reale, semidistrutto dai bombardamenti del 1943. Non tota perit come si trova scritto sull’ex libris – un bruco e una farfalla in diverse varianti – di Albrecht von Haller, naturalista svizzero considerato lo scopritore delle Alpi, la cui collezione di libri rari è conservata qui, assieme a quella di Umberto Eco, Manzoni, la raccolta Melziana, la raccolta bodoniana Mortara Spinelli, il Fondo Castiglioni, le edizioni aldine eccetera eccetera. A cercare quei libri nei labirinti dietro le quinte, Bianciardi racconta di omini reclutati in Val Brembana o di «nani autentici di circo equestre».
Avanzo timido un mattino di dicembre nella sala e non c’è da meravigliarsi della teatralità della balconata neoclassica continua in noce: disegnata nel 1785 da Piermarini, l’architetto della Scala. Un disagiato di genio con il loden mi racconta della sala della Mummia: la sala Manoscritti dove mi conduce, una volta era chiamata così per via di una vera mummia egizia. Esposta qui dal 1830 al 1910, era un regalo dell’esploratore Giuseppe Acerbi (1773-1846) proveniente da Tebe. Inoltre, in dono, ancora qui a differenza della mummia finita al Castello Sforzesco, il Libro dei morti dove si spiega la psicostasia: il pesare l’anima dei morti per sapere se era degna o meno dell’oltretomba.