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Vatti a fidare del signor Algoritmo

/ 16/12/2024
Carlo Silini

Quando portavamo i calzoni corti erano i genitori, i nonni, i capi scout, i parroci all’oratorio o gli allenatori delle squadrette di calcio e delle associazioni sportive dove crescevamo a decretare il valore del nostro comportamento. Soprattutto era la scuola, che quantificava col verdetto delle note l’entità della nostra «bravura» non solo nei campi dello scibile, ma anche della nostra capacità di stare al mondo. Oggi lo fanno le app.

Abbandonate da un pezzo infanzia e adolescenza, abbiamo trasferito dentro i telefonini la voce inflessibile della coscienza, il «super ego» che ci premia o ci sgrida, direbbe Freud, ovvero «l’istanza psichica la cui funzione è sorvegliare l’Io, impartirgli degli ordini, dirigerlo e minacciarlo di punizione».

Pensate alle applicazioni contapassi. Sei tu, quando fissi le impostazioni, a porre i criteri di giudizio sul tuo fare: 5 mila, 7 mila, 10 mila passi al giorno? Ma poi è lei, l’applicazione, a rimproverarti se non raggiungi l’obiettivo, o a riempirti di complimenti preconfezionati se ce la fai. Lo stesso succede con le app per una corretta idratazione, la dieta intermittente, gli esercizi di yoga, la pausa di mindfulness, le ore di sonno, il rinfresco quotidiano dell’inglese o del tedesco, i giochini di neuro allenamento per rinvigorire il cervello, il contacalorie… C’è un avviso sonoro per tutto: su, coraggio, ti mancano solo tre bicchieri d’acqua e per oggi ce l’hai fatta; ahi ahi ahi, non hai fatto gli addominali, domani dovrai recuperare. Non ti conviene fare un piccolo sforzo e chiudere il cerchio prima di spegnere la luce?

Sono affabili le app, usano le parole giuste, utilizzano argomenti molto convincenti per spronarti a fare quello che dovresti. Leggo sull’ultima newsletter di TA Swiss, il Centro finanziato dalla Confederazione per la valutazione delle scelte tecnologiche, che un assicuratore svizzero per promuovere il buonumore sul lavoro sta testando un rilevatore del riso, programmato per registrare almeno quattro sonore risate ogni due ore. Se l’obiettivo non viene raggiunto parte un’e-mail che dovrebbe aiutare a trovare l’allegria (come?, non si sa). Mentre già da tempo una nota cassa malati elvetica, dalla propria applicazione sul telefonino conta i passi quotidiani dei suoi iscritti, in modo che quanti fra di loro raggiungono la soglia dei 10 mila, possano accumulare punti convertibili in denaro o in un buono di scambio. O – se si è proprio altruisti – in un regalo per una buona causa.

Le nuove tecnologie ci aiutano a mantenere abitudini virtuose? Bene. Ma, primo: quelle che forniamo alle app sono informazioni delicate e intime. Il web registra tutto e ci mette un attimo a farti la scheda perforata col tuo profilo sanitario, sociale ed economico, pur di venderti qualcosa. Il telefonino memorizza ogni scelta che digiti e il signor Algoritmo ti offre con precisione chirurgica un prodotto specifico per qualsiasi richiesta, soprattutto per quelle inespresse. Bello? Ni: risponde commercialmente alle nostre esigenze più o meno esistenziali, ma in cambio ci chiede montagne di informazioni sensibili. Secondo: non è che con questo tripudio di app servizievoli, coach virtuali e tecnologie intelligenti stiamo delegando la nostra forza di volontà alle macchine? A parte il fatto che gli adulti saremmo noi, la macchina non è la mamma, non le interessa il nostro bene. È programmata per entrare nelle nostre teste e farci spendere di più. Nell’epoca delle libertà individuali inviolabili, stiamo accettando di restare bambini coi calzoni corti (giusto un po’ più cresciuti) e lasciamo prendere le decisioni più significative sul nostro conto al signor Algoritmo di cui sopra?